Un'estate fa non c'eri che tu. Adesso chi c'è non lo sa nessuno. Ottobre ci ha sorpreso con i suoi mille gradi di meno. Ci hanno abituato troppo bene e adesso la staticità dei tempi e dei modi e dove guardiamo che tanto non c'è nulla da guardare. Da sentire. Perdiamoci nei deliri urbani, nei deliri bigotti della marca, nelle tangenziali e nei paesi dimenticati. Nei caffè. Nelle sigarette in macchina con la nuova religione di dischi interi nell'iPod. La giacca mi sta scomoda, come i lunedì e i martedì e i mercoledì. Come certi sabato calibrati male. Ed eravamo partiti così bene.
E' tempo di ricucirsi i polsi mi dicevi mentre prendevamo milioni di vie a senso unico. Io ti dicevo di sì ma facevo molti pochi passi. Che tutto era perfetto così che non ci ferma neanche il San Giorgio di Addis Abeba se mai fosse esistito se mai la storia fosse stata un'altra. C'era quel ponte e c'erano quei vecchietti e chissà che sigarette fumavo. Io ti dicevo di sì ma avresti dovuto sbattermi la faccia sgranata sui marciapiedi e sulle staccionate e sulla neve che ci era caduta addosso e dirmi a me non mi freghi stronzo. Magari avrei capito e sarei andato oltre la striscia positiva di vittorie e di pareggi e di troppo poche sconfitte.
Ma sai aspettare i massacri successivi e poi svegliarsi molto tempo dopo molte vite dopo. Prendere l'ago e il filo e il polso e le vene che le schiacciamo per vedere se tornano su più grosse, cominciare a cucire. Nonostante la paura secolare degli aghi. Non ci ferma nessuno nemmeno l'abitudine nemmeno il vento. I nostri lunghi periodi i nostri bei momenti le nostre colazioni.
E allora perché restano le cicatrici sui polsi e un bel po' di sconfitte. Perché?