Alla fine quello che è stato non torna più e quello che è stato e che ci è rimasto tra le dita è comunque troppo poco per pensare di costruirci attorno qualcosa di decente. Così è meglio partire da zero, o non partire affatto. O semplicemente cambiare l'approccio e ammettere che il tempo passa e l'aspettativa anche, che il tempo degli errori di gioventù sarebbe da accantonare e sarebbe ora di diventare qualcosa. Di contare fino a dieci. Di riprendere in mano la penna e i fogli bianchi. Di accettare di buon grado quando mi tiri giù e quando hai ragione. Ovvero sempre, accidenti a te.
C'era una volta un ragazzo che scriveva in continuazione e c'è un ragazzo che non scrive più. Saranno i pensieri troppo alti e scollegati, sarà la pretesa di una rivoluzione e di quello che non c'è. Sarà che poi le cadute più rovinose si fanno sulle scale di casa, scivolando tra l'erbetta appena bagnata del giardino. Avercelo, un giardino.
Intanto il ragazzo arriva alla stazione di Padova, nella borsa il necessario per sopravvivere alla serata. L'ora è ancora quella vecchia, le diciannove e trentadue scandite dall'orologio del cellulare rappresentano un orario notturno. Il ragazzo segue il flusso di gente dagli sguardi bassi e dalle sacche pesanti, giù attraverso il sottopassaggio. L'imbocco odora di profumi densi e fumo di sigaretta. Dalla tasca estrae sessanta centesimi e appena può si stacca dal flusso, camminando a passo spedito verso i bagni della stazione. Non c'è anima viva, c'è solo il brusio lontano a mischiarsi con le voci metalliche degli avvisi. Di eurostar in ritardo. Inserisce i sessanta centesimi nella macchina mangiasoldi all'entrata, scattano le porte automatiche, entra nel bagno. Dalla borsa fa uscire una busta nera, piena di oggetti personali: uno spazzolino, un tubetto quasi spremuto di dentifricio, del deodorante, un contenitore per le lenti a contatto, del filo interdentale. Si lava i denti, si sciacqua la faccia stanca, ripensa alle cose successe da quando si era svegliato, svariati chilometri più a sud, in un'altra città, in un'altra vita. Ripensa a quel numero di telefono abbozzato su un foglietto arancione, alle strategie per ottenerlo, al modo in cui lo ha ottenuto, alle variabili indipendenti che gli si parano davanti e che forse non lo porteranno da nessuna parte. Alle poche sigarette rimaste nel pacchetto dentro la tasca della giacca. Sistema il colletto della camicia ripassando nella mente le parole della sera prima, le riflessioni amare e la sensazione acre di aver perso l'attimo, la fortuna, la buona stella. Entra un uomo di mezza età, in vestito, che lo squadra dal suo metro e ottanta, e gli rivolge un saluto impercettibile, senza fermarsi. Ha gli occhi piccoli senza vitalità, pochi capelli, una cravatta spigata granata e blu, una camicia azzurrina, sgualcita da una giornata cominciata evidentemente troppo presto. Una ventiquattrore in pelle portata con la mano destra, un anello d'oro che dà fastidio a vedersi da quanto è appariscente. Il ragazzo ricambia, abbozzando un mezzo sorriso tirato, attraverso il riflesso dello specchio che campeggia rettangolare sopra tutta la fila di lavandini. L'uomo ha un'espressione troppo composta, granitica, mentre gli sfila alle spalle; l'accenno di saluto, la cortesia, sembra già essere immaginazione, invenzione, difetto. Entra in bagno, il ragazzo nota per la prima volta i colori asettici e freddi del bagno; non c'è accoglienza, non c'è vita, non c'è nulla. Fuori c'è il buio e gli eurostar in ritardo. Dentro ci sono troppi aspetti da sistemare. Pigia il pulsantino verde che sblocca le porte automatiche, si ributta nel flusso. Non prima di aver dato un'ultima occhiata al bagno della stazione, a quell'uomo e al suo impercettibile saluto. Forse non è mai esistito, non il saluto, non l'uomo.
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