lunedì 27 ottobre 2008

Esercito di santi - Maffia, Reggio Emilia

Si parte dal fatto che avevo appena finito di scrivere questo post, e si è cancellato tutto. Ci riproviamo, nella disperazione.

"Sei pronto?siam qui fuori a fumar na cicca"


Ci ritroviamo a non capirci tanto. Vivere sensazioni strane, al limite. Sensazioni lungo i bordi, con l'inadeguatezza che da sempre ci accompagna e ci fa chiedere se è qui che si vorrebbe stare davvero. Che magari vendere caldarroste in Nepal poteva essere la vera vocazione. Vacillare per qualche attimo anche sul tuo essere più profondo. Che tanto non ci si perde più il sonno, che le pecore in realtà sono diventate preoccupazioni da un bel po', e contarle vuol dire impazzire. E allora è il momento di crescere, e ci anestetizziamo, e forse non cresciamo, e non ci facciamo nemmeno più del male con i nostri messaggi gratuiti della buonanotte. Che poi pensandoci un attimo, andando a letto sempre dopo la mezzanotte, e con queste tariffe un pò così, è l'unico messaggio che pago.
In nome di dio vi perdono e vi condanno.
Il tempo fa esplodere le occhiaie, il tempo morde i fianchi, li ri-modella, li s-forma. Ma il tempo conserva certe cose, le cristallizza in dispositivi più o meno tecnologici, più o meno per sempre.
Ci ritroviamo a non capirci tanto. Ci ritroviamo nella salaprove dei Massimo Volume, io che nella mia estrema gioventù li ho bruciati in tutti i lettori di mio possesso, e non solo. E lasciamo un dito sul rullante di Vittoria, per poi immergerlo nel cicatrene e vederlo comunque sanguinare.
Perchè a volte non è necessario capirci tanto, perchè dopo una sera che diventa inaspettatamente atomica, il giorno dopo senza svegliarci sul serio ci siamo ritrovati al Maffia.
Per aprire la prima data del Reunion Tour dei Massimo Volume.
E ci siamo riempiti lo stomaco di frutta e formaggio, di succhi improbabili e sigarette, mentre dal palco sentivo un soundcheck che mai avrei pensato neanche in quei sogni dove tutto è meglio della realtà e dove lo capisci subito e sai che sogni ma ti costringi a continuare a sognare. E realizzi che la nostra realtà, carissima, è imprevedibile. Che se ci pensi è come aprire un concerto a Johnny Cash, o ai Clash. Che se ci pensi riconosci le persone. Filtri il lato umano delle cose. E il lato materiale delle persone.
Ci ritroviamo a non capirci tanto mentre ci sfondiamo di gelato e di caffè e di benagol all'arancia, che a giudicare dagli effetti sulla mia gola devastata potevano essere tranquillamente scadute. E la nostra personalissima maratona ammazza tempo passa per la zonaindustriale di Reggioemilia, e a cena siamo un'allegra compagine che secca bottiglie di vino e ordina settemila cose una diversa dall'altra. E sto seduto tra Jukka ed Egle che sogghignano ai miei ventidue anni. Che poi sono ancora ventuno, che a tratti mi sento come una specie in via d'estinzione. Che mi estinguerò verso la fine dell'anno. Il cellulare non squilla degli squilli che vorrei, e segna ore impietose, di ritardo cosmico. Così il caffè-amaro-sigaretta è un rito da compiersi in tre minuti, e quando arriviamo al Maffia e trovo il Piombo, con la sua Rossella, di sigarette ne ho fumate altre tre. Che siamo tesi come le corde del mio archetto di violino, che se non fosse così tirato non renderebbe per nulla. Che siamo tesi che ci ritroviamo sul palco senza accorgersene con ancora il calore del caffè a grattarti l'esofago.
E al solito non vi guardo ma vi sento, intravedo volti sconosciuti mentre aspetto che le dita si scaldino più del legno delle bacchette. Così ci si può sciogliere. Ritrovarsi in un happening di cui non eravamo propriamente consci, una tensione magnetica che aveva il rumore delle scosse elettriche delle spie.
E magari ti innamorerai di me quando vedrai improvvisare Dub-Human-Ism con un tempo strano, tipo un 13/8. E magari ti innamorerai e non ci mancheremo più per un niente, come sempre, che tutto ruota attorno a te e il tuo cellulare, in un citazionismo cannibale che succhia anche gli strumentali. E non ci salva il corsivo. Che alla fine, tutto si è un pò sgonfiato. E la canzone preferita resta preferita, ma anche se non l'ascolti una volta due volte mille volte al giorno, non è che cade il mondo. Che se vogliamo di pezzi ne ha già persi un bel pò.
E magari ti innamorerai delle Lacrime di San Lorenzo, del personalissimo momento glam mio e di Egle, che ci viene bene, e che ci viene da ridere. Lasciando tutti sospesi. E sorpresi. Marcella se ci vede, sorride pure lei. Paolo invece, non serve, che se gli prende bene sorride sempre e basta guardare lui per stare tranquilli.
Ti insulto delicatamente e ti chiedo scusa mentre ti dimentichi di farmi il cocktail che ti ho chiesto proprio quando comincia Il Primo Dio. Ti sorrido e mi sorridi mentre ti chiedo un altro cocktail quando comincia Seychelles '81, che ripenso alle mille volte in cui l'ho suonata al buio di un iPod e di una salaprove sotterranea. Ti sorrido ancora, e molto meno composto, quando perdo il conto dei cocktail che ti ho chiesto.
Perchè è inutile parlare. Bisogna esserci, esercito di santi. Bisogna vedere, esercito di santi. Bisogna ascoltare, esercito di santi. Bisogna toccare con mano, esercito di santi. Bisogna entrare. Molti modi, altri nomi. Dovrei comprare uno spazio pubblicitario immenso, un cartello giallo con una scritta nera, dove scrivere semplicemente "Carissime, giuro che c'ho provato". Perchè davvero, c'ho provato. Fatico a guardarti negli occhi, perchè sono troppo grandi per me. Ora basta capire se sono i miei ad essere troppo vuoti, o i tuoi troppo pieni.
Io so che in certi casi è meglio non fare troppi movimenti, perchè si va a fondo più lentamente.
Io so che in certi casi, si comprende realmente il valore di una cosa quando la si è digerita. O la si è persa per sempre.
E qui si va oltre i Massimo Volume, i Blake/e/e/e, io, te, noi, i cocahavana, le sigarette.
Salendo le scale, ci ha spaventato il silenzio.
Ma ancora di più, l'esaltazione e il terrore che graffiano la schiena.
E a tratti non resta che urlarsi nella testa Ronald, Tomas ed io. E pensare che il patto, il giuramento con se stesso, è targato 26 dicembre 1986.
Io sono nato quattro giorni dopo.
Tutto qui.

lunedì 13 ottobre 2008

Perdersi magistralmente - La Casa 139, Milano


"Stasera ci vogliono palle ferme"
O, la migliore alternativa, poteva essere: "Ehi. Spacca."
Via essemmesse che fa sempre piacere.


Comunque, ormai ci è preso meglio. Ormai sappiamo cosa va e cosa non va, e quindi non ci facciamo spaventare neanche dal troppo traffico e dalle troppe curve di via Ripamonti. Che Milano per noi è una strada, e neanche tutta, che poi magari è così lunga che ci perdiamo. Ma si sapeva, si sapeva del cielo notturno illuminato a giorno, del veleno, di quel posto che attira perchè odora di alienazione, dove ci si perde magistralmente e dove ci si può distribuire in un locale di due piani anche solo per fumarsi in santa pace una sigaretta. Un posto bellissimo, nelle sue sfumature di grigio.
E ci portate a mangiare a cinquanta metri dalla Casa139, che così almeno assaporiamo un pò di smog. E rischiamo di farci buttare sotto dalle macchine della polizia. E gli sbirri in bicicletta come fossimo a Miami. E torniamo e ci riempiono i bicchieri col massimo consentito, mentre Egle suona Sabbia forse perchè gliel'ho chiesto io, a cena pochi minuti prima. Che ridevamo di quanto sarebbe stato bello spiazzare tutti facendo gli stronzi. Che ridevamo di quando finalmente riuscirà a mangiare con calma, con noi, senza dover arrivare dopo ed andarsene prima.
Sali sul palco e guardi la cassa da 20" della Yamaha che ti hanno dato in dotazione, e pensi che non può durare tutto il concerto, che è talmente leggera che si sbriciolerà sui colpi storti di Time Machine. E cominci in apnea, fino alla mia personalissima Cima Coppi, che viene relativamente presto, e allora poi è una discesa. E ci prende così bene che a tratti abbiamo quasi un'attitudine rock, con le teste che si muovono e i sorrisi segnati dalla fatica di andare dritti sempre e comunque con un bitrate più o meno costante. E mentre armeggio il triangolo penso che sto dando delle mazzate a quello che ero. E mi piace.
E ti rendi conto che a tratti è perfetto.
E poi finisce tutto che nemmeno ti accorgi, allora decidiamo che possiamo finire anche noi, ci riempiamo i bicchieri e svuotiamo il credito dei cellulari, appollaiato su quell'amplificatore della Orange che ci avrei scommesso che si sarebbero presentati proprio con quello.
Finiamo di parlare che mi hai scaldato il cuore, e scendo e Amaury Cambuzat mi fa i complimenti, e ci metto un secondo a metterlo a fuoco. Giusto per dare un tono alla voce, presa a pugni dal cocahavana e dalle sigarette.
E partiamo tardissimo, e la nostra colazione alternativa delle tre di notte si trasforma in uno spuntino salato che non ci sveglia ma ci affossa. E buchiamo la nebbia, per arrivare a Bologna alle 7 di mattina.
E' fatta/a/a/a.

martedì 7 ottobre 2008

Tutta colpa di Moltheni

Il freddo era arrivato di nuovo, con una velocità imbarazzante ed una cattiveria degna della Siberia. Lui alzò il bavero della giacca e schiacciò più forti le cuffie dell'iPod dentro le orecchie, quasi a stordirle, quasi a stordirsi. Il freddo lo aveva sorpreso, come aveva sorpreso tutti, e lo si notava dalle mani screpolate, dalle labbra tirate e pronte a scoppiare, piuttosto che dai colori più sbiaditi che lo attorniavano. Che attorniavano tutti. Lo spaventavano, i colori sbiaditi. Lo facevano sentire meno definito, lo facevano sentire più appiattito. Ma provava ad andare oltre, a non soffermarsi su quelle cose così naturali, così cicliche, da fargli paura. Lui non pensava, camminava e basta, infilava un passo dietro l'altro, ascoltava i rumori della strada ovattati dalle guarnizione di gomma delle cuffie e dalla musica, e basta. La musica era bassissima, impercettibile e sovrastata dalle troppe macchine che gli sfrecciavano a fianco, così infilò la mano nella tasca e fece girare la rotella dell'Ipod per alzarne il volume, e cancellare il mondo esterno; esplose in cuffia L'età Migliore di Moltheni, così forte che gli venne istintivo mordersi le labbra, già al limite della sopportazione. Affondò i denti nella carne, sottile e fragile come la carta di riso. Il freddo diluì il dolore, il passo non ne risentì eccessivamente. In bocca, immediato il sapore inconfondibile del sangue, quell'unica goccia che però sembrava averlo riempito fino allo stomaco. Siamo troppo suggestionabili. La stessa mano che aveva sfiorato l'Ipod ora cercava tra le tasche dei jeans un fazzoletto qualsiasi, che non esisteva. Passò alla borsa, scivolando tra il pacchetto di sigarette morbide e le chiavi di casa, tra il portafoglio e l'accendino, di quelli piccoli con la placca in metallo sulla rotellina per preservare chissà quale bambino idiota dal darsi fuoco. Niente, ovviamente. Ricalibrò le sue priorità, accelerando il passo. "E' ora di ricucirsi i polsi", pensò, e solo dopo che il pensiero si era materializzato, realizzò quanto un cantautore fino a pochi mesi prima sconosciuto potesse costruire in tempi brevissimi un immaginario, una serie di frasi nuove recliclabili per ogni evenienza, anche per un incisivo superiore che affonda in un labbro. Pensò anche che la priorità non era questa, pensò che c'era già Moltheni, ormai quasi alla fine della canzone, a fare da colonna sonora a quel momento di dolore anestetizzato. Al primo bar che gli si parò davanti, entrò veloce e con gli occhi bassi, senza curarsi dei particolari che solitamente amava ricercare. Afferrò i tovagliolini di carta posati sul bancone e tamponò il labbro, attento a non sporcarsi le mani con quell'unica goccia di sangue che ancora persisteva e desisteva dal seccarsi. Poi si guardò attorno, tornando in lui, e scostando le cuffie dalle orecchie. Da quando era entrato nel bar, aveva dimenticato tutti i suoni del mondo, compreso quello che usciva da quell'iPod regalato due anni prima, e che cominciava a perdere qualche colpo. Si soffermò sulla gente riflessa appena dai finestroni, sul vecchio che leggeva il giornale locale seduto in un angolo e sulla sua tazzina vuota, ormai fredda e segnata dall'ombra del caffè. Sulle bottiglie di superalcolici mezzevuote allineate dietro la banconiera, una signora che avrebbe potuto avere duecento anni, così mascherata dal trucco pesante e da un rossetto quasi marrone, passato con troppa violenza.
"Desidera qualcosa?".
"Un caffè, grazie", rispose lui, mentre continuava a tamponare il labbro, più per sicurezza che per una vera e propria necessità. "Anche un bicchiere d'acqua".
Consumò il caffè e il bicchiere d'acqua, attento a non toccare con la porcellana prima e con il vetro poi la sua ferita microscopica, e ancora aperta. Il caffè mascherò il sapore del sangue, e la sensazione di calore immediata lo rinfrancò fino quasi alle ginocchia.
La solita mano trovò velocemente il portafoglio e mise cinque euro tutti sgualciti sul bancone. Prese il resto e se ne andò, salutando meccanico, e alquanto silenzioso. Il vecchio era ancora fermo sulla stessa pagina del giornale locale, la bicentenaria si era già voltata dall'altra parte come se lui non fosse mai entrato, come se lui non fosse mai esistito.
Infilò le cuffie e riprese la sua via, preparandosi a ricevere nuovamente lo schiaffo del freddo, di quel freddo inaspettato che aveva sorpreso lui come tutti gli altri. Quel freddo che aveva fatto essere lui uguale a tutti gli altri. Con un labbro morsicato, in più.
E allora realizzò che, in fin dei conti, era stata tutta colpa di Moltheni.

lunedì 6 ottobre 2008

Le spie con i corvi dentro - Velvet Club, Rimini


"Allora, andiamo a farci una sigaretta. Poi, se scazzo io, tu vai dritto che almeno poi ti ripiglio. Se scazzi tu, mi fermo io e vediamo cosa viene fuori"


Poi dopo quattrocento volte che sali e scendi per mille motivi, ti siedi dietro alla batteria ed è la volta definitiva, quella che poi per un pò non ti alzi più. Allora guardi avanti e vedi gli altri molto più lontani di quanto sei abituato. Li vedi in scala. Che guardi la gente e pensi che ti ci vorrebbe uno scolapasta in testa. Che la cena l'hai digerita da un pezzo, anche perchè è molto più tardi del previsto. Poi realizzi che sul palco non si sente nulla, e allora più che uno scolapasta servirebbe una bomba-a-mano. E la colla vinilica sulle mani. E soprattutto una memoria da elefante, e la fervida immaginazione di chi si diverte troppo per lamentarsi delle spie con i corvi dentro. Che dà fastidio quasi quanto il mio nuovo ed economico archetto da violino in 3/4, che lo sperimentiamo sui piatti che cigolano come un gatto investito, ma che permette il mio personalissimo assolo sul finale di Border Radio. E' solo questione di differenziare il suono percepito da quello effettivo, e non ci si riferisce all'assolo, ma al concerto nella sua totalità.
Saranno quindici gradi, ma ne senti il triplo, mentre bruciamo pacchetti di sigarette e ci soffermiamo a guardare i poster che tappezzano i camerini. Dove i Baustelle incidono sul muro "Baustelle was here" e qualcuno sotto gli risponde "fate cagare!" o qualcosa-di-simile.
Poi mentre torni in quella che per qualche giorno della settimana diventa la "nuova casa", ti fermi alle quattro di mattina negli autogrill tutti uguali, e gli altri fanno colazione e tu trovi, tra le mille stecche di cioccolato, una della Lindt alla Creme Brulè.
Alla Creme Brulè.
Alla Creme Brulè.
E allora ti sciogli, mentre ti si chiudono gli occhi.
Come prima, in un posto qual'è il Velvet, forse potenzialmente al 30% di quello che saremmo, è stato figo. Comunque figo, come quel simpaticone del commento su rockit. Il tempo scorre realmente lungo i bordi.