A volte capita di impantanarsi e di avere l'impressione di restare immobili. Allora servono le scosse. Allora capita che finalmente siamo andati a Berlino, e abbiamo approfittato di tutte le cose che ci hanno riempito gli occhi e il cuore per scriverci un po' su. Ma a volte scriverci un po' su non basta: a volte bisogna fare le cose in due, perché quattro erano gli occhi riempiti, due i cuori. Il mio, e quello di Teresa. Quello che segue è un post scritto a quattro mani, ci abbiamo messo più del necessario, ma chi ci conosce sa che abbiamo i nostri tempi. Dopotutto, siamo tornati ieri da un'altra capitale.
Ce lo eravamo promessi troppe volte per rimandare ancora. Era diventata una cosa necessaria. Così necessaria come rimettersi a scrivere, ogni tanto, per fermare un po' di quei pensieri che scorrono sottopelle e che difficilmente, di questi tempi, vengono in superficie.
Poteva essere Bruxelles, poteva essere Siviglia, poteva essere Lisbona. Invece malgrado il freddo e l'ora legale, avevamo voglia di Berlino. Perché o non ci siamo mai stati o ci siamo rimasti così poco per farcene davvero un'idea, per poterci dire l'abbiamo vissuta. Perché Berlino è una città che si vive, non si visita.
Avevamo il nostro albergo superlusso in superofferta e le sue colazioni all you can eat, avevamo una cartina scarabocchiata sempre più illeggibile e un libricino con un po' di possibili mete, quasi tutte senza indirizzo, quasi tutte scelte d'impulso. Avevamo noi. Non hai pensato anche tu che mai come questa volta poteva bastare?
Camminiamo molto, camminiamo che mi si leva un tacco, che ci perdiamo a Kreuzberg, e non per colpa di quel mercatino lungo il canale. Camminiamo verso qualche parte, com'era. Non ci curiamo di tutti quei posti in cui non siamo stati, e non ci curiamo dei musei che abbiamo lasciato ai giapponesi, nemmeno di quelle cose che a sentire i rumors, erano imprescindibili. Ma non avete visto il museo sull'olocausto? Lo ha fatto l'architetto quello là! È il simbolo di Berlino! Ma non siete andati al Tacheles? Ma è il centro sociale tra i più fighi d'Europa! Ma allora non siete stati davvero a Berlino! Forse non siamo stati davvero a Berlino anche se ci pareva, ma quel posto che invece abbiamo visto noi ci è piaciuto e ci è bastato e ci saremmo stati di più, così magari avrei preso qualcosa oltre a delle mentine della DDR e un balocco da attaccare all'albero di Natale. Così magari avrei trovato il mercatino delle pulci aperto, e non eccezionalmente chiuso.
Berlino è la città meno tedesca della Germania. Per i ritardi sulle date di fine lavoro nella metropolitana, sembra quasi una città italiana. Berlino sono le comunicazioni di servizio in una lingua dura come il marmo, impossibile da districare. Dopo venti minuti eravamo già fuori strada, a chiederci come fosse possibile nonostante lo stato d'allerta massimo, a intercettare emigrati italiani che ci confidano come sopravvivere ai cambi e alle intersezioni delle varie linee di U-bahn.
Qui se non esageri con piumini lucidi o Timberland, nessuno sa che sei un turista. Certo, devi spesso tacere, non essere sguaiato, però ci sono anche gli italiani che vivono a Berlino e tu potresti essere uno di quelli. Potremmo essere due di quelli lì. Ma è sempre il solito problema di chi è nato a cento metri dal mare. Puoi andare ovunque, ma poi l'odore di salsedine ti richiama a casa. Perché è quell'odore, casa.
Ci sono strade lunghe e ampie a Berlino, strade ordinate e con poco traffico, parcheggi con macchine che non abbiamo mai visto parcheggiare ma sono tutte lì messe per bene, dove si può e non dove secondo me non disturba nessuno.
Ci ha abbracciato la nebbia, stagnante nelle carreggiate a tre quattro cinque corsie, ci siamo abbracciati e abbiamo marciato verso la porta di Brandeburgo. Ci siamo stupiti di essere solo noi e pochi altri a camminare in posti che avremmo immaginato tracimare di umanità brulicante e di macchine digitali. Ci siamo stupiti dei parchi senza recinzioni che sembrano quasi foreste, che quando il sole scende ti viene da pensare siano da evitare e invece vedi un sacco di gente che si avventura dentro per correre. E non ci sono i lupi cattivi.
Abbiamo dimenticato di fotografarci, abbiamo dimenticato il tempo che scorreva sotto la torre di Alexander Platz, senza il suo pallone dorato oscurato dalla nebbia. Sotto i tigli abbiamo pianificato le nostre giornate, promettendoci reciprocamente di saltare negozietti di vinili e franchising di vestiti, a meno di folgorazioni eccezionali. Siamo stati quasi bravi.
Quando una birra in un posto qualsiasi costa almeno un euro in meno rispetto ad una birra in un baretto smarzo italiano ben selezionato, allora non serve nemmeno pianificare troppo il da farsi, possiamo concentrarci sugli hamburger più esagerati del Mitte, possiamo spararci degli shortini di Jagermaister per provare a sopravvivere ad una serie di digestioni che si preannunciano difficili.
Ogni tanto ci sentiamo inadatti ai palazzi così alti e agli angoli squadrati delle vie di Kreuzbeurg, scoprendoci inseriti in un tessuto che non conosciamo ma che con un minimo di attenzione non si dimostra per niente complicato. Che quasi si indossa bene, come ai manichini delle vetrine a cui resisti per due giorni abbondanti.
Gli spaccati di vita nella DDR, i tipi poco raccomandabili che fottono banconote da cinquanta euro ai polli di Karl-Liebknecht-strasse, le foto così e così che un effetto vintage sembra poter rendere migliori. Ci siamo dimenticati l'ipod e ce ne siamo ricordati all'ennesimo passaggio obbligato per Alexanderplatz, perché ti sarebbe piaciuto guardare quella torre imponente con Battiato nelle orecchie, tutte le volte che lo abbiamo ascoltato guardando tutti questi palazzi che ci crescono attorno e dentro cui non ci abiterà nessuno.
Ognuno si fa gli affari propri, ognuno parla a voce bassa, noi continuiamo ad uscire dalla parte sbagliata di Wittenbergplatz, tra l'Harrods berlinese e la Siae tedesca. Il male assoluto, il male che non dorme mai. Ma almeno questi lavorano.
È nel Mitte che hai voluto rimanere qualche istante in più in un negozio perché volevi capire che canzone era quella appena iniziata che poi era Se io non avessi te di Nek. Siamo usciti ridendo e portandoci dietro quella dannata canzone per tutto il pomeriggio. Cambiamo latitudine, siamo in una delle città più effervescenti d'Europa ma è chiaro che ci si può annoiare anche qui, ci si può divertire squallidamente anche qui. Si può passare un sabato sera in un pub dentro un centro commerciale chiuso, dove rimangono aperti solo due bar e una discoteca al piano più alto. Dove le donne bevono prosecco con ghiaccio e gli uomini boccali di birra. È altrettanto chiaro che i capperi li assoceremmo a Pantelleria, al sole, alla dieta mediterranea, e non ad un'antica ricetta prussiana di polpette di carne, panna, vino bianco e due patate lesse intere, minacciose. Di sicuro sbagliamo nel non conoscere come si dice cappero in inglese e tanto meno in tedesco; ed è così che me ne ritrovo un vasetto su un piatto già pesante soltanto alla vista. Di sicuro sbaglio a non optare per una zuppa con barbabietola, pancetta e abbondante panna. Di sicuro è arduo avere una digestione difficile e vivere a Berlino. Di sicuro c'è da aggiungere l'intolleranza a ingenti quantità di curry wurst al richiamo del mare.
Quando abbiamo deciso di puntare ai musei è stato come scendere da una giostra lunga decine e decine di chilometri, abbandonare una modalità per abbracciarne un'altra, come arrendersi al flusso tipico di ogni metropoli che si rispetti. Ma gli egizi li conosciamo a memoria, e allora ci siamo incastrati tra Warhol e le seghe mentali di troppa arte contemporanea, tra istallazioni e video devastanti, bastian contrari, amanti del feltro, amanti della ghisa, amanti dell'acqua sporca. Siamo usciti da Hamburger Banhof con la voglia di dare fuoco a tutto quello performato dopo il 1980. Siamo usciti da Hamburger Banhof e siamo andati a chiudere un cerchio aperto più di un lustro fa, quando c'erano in ballo vite diverse e tutte orbitavano attorno a Padova. Stefano è venuto a lavorare qui e qui c'eravamo già incontrati, ma era stato tutto troppo veloce per considerarlo un vero e proprio incontro. Stavolta abbiamo pianificato un posto, un concerto, delle birrette leggermente amare che scorrono troppo bene per non chiamarne altre e altre ancora.
Qui ci siamo lasciati per vedere l'effetto che fa, per tornare a casa una domenica sera qualsiasi ed essere come un berlinese qualsiasi, che guarda un concerto con un vecchio amico, si sbronza con un vecchio amico, sorride perché il vecchio amico comincia a dimenticare l'italiano e se ci pensi è divertente, visto che il tuo lavoro a differenza del mio innanzitutto è un lavoro e in secondo luogo è stato appiccicato sulle pareti della stazione centrale di Milano, tra le altre.
Il rumore dei vagoni che sferragliano sui binari è un qualcosa che mi manca, ovattato dal chiuso di una galleria a qualche metro sotto il livello dell'asfalto, qualcosa che riscopro ogni volta, che mi fa sorridere, tracciando linee drittissime da una parte all'altra di un paesotto di svariati milioni di abitanti.
Anche con l'unico receptionist fastidioso della nostra vacanza, anche con i piedi spezzati dai troppi, troppi chilometri percorsi. Quando ci siamo guardati persi in qualche imprecisato piano di Friedrichstrasse, con i treni che ci sfrecciavano attorno e nessuno di essi portava un nome che ci potesse in qualche modo tornare utile.
Era quello che aspettavamo, uno spazio nostro di cui avevo bisogno. E anche se dicevi di no avevamo già i pezzi di Lego che ci servivano, dovevamo soltanto costruirlo. Avere la pazienza e la voglia di aprire la scatola che li conteneva e leggere le istruzioni. Poi le abbiamo buttate via, lasciate in camera come la guida, le istruzioni; ed è stato bello così. Bello come tornare a casa da sola, sorridere assieme a due sorelline che in metropolitana non riuscivano a completare una filastrocca con quel giochino delle mani perché una delle due non riusciva a smettere un secondo di ridere. Una filastrocca di cui ho capito soltanto pepsi cola e coca cola; meglio di così mi era difficile. Ma ridere è sempre cosa più semplice.
Quando abbiamo aperto gli occhi lunedì è stato così strano. La mano appoggiata nel letto. L'ennesima doccia, l'ennesima colazione mostruosa. Tutto comincia ad assomigliare ad una normalità che il giorno dopo finisce. Come i tour di tre o quattro giorni. Ti devastano più di quelli di un mese.
Possiamo tornare a casa e guardarci negli occhi e dirci che siamo qui e che qui, alla fine, abbiamo sentito chiaramente quella sensazione di completezza che abbiamo a lungo atteso.
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