lunedì 10 maggio 2010

Diteci che siamo sani.

Sono in treno e da quando sono partito da Padova ho alzato gli occhi dal libro che sto leggendo tre o quattro volte al massimo. Non di più, giusto il tempo di focalizzare fuori dal finestrino i cartelli blu delle stazioni, fermate in città misconosciute di un nordest industriale e bigotto, stipato all'inverosimile di contraddizioni. Ma non ci penso, penso al libro e alla mia destinazione, a Verona alla presentazione di un libro, che ci vede schiacciati dentro senza realizzare appieno di cosa si stia parlando, di cosa si tratta in realtà. Ma non me ne curo, ho imparato a lasciare che certe cose passino semplicemente, prendendosi da sole il tempo che meritano. Per il resto, ho trovato i miei modi per non pensarci troppo, entrando nelle storie degli altri, che a volte la propria va accantonata per un'ora, un'ora e mezza. Così sono in treno e il treno è a dieci minuti da Porta Nuova e mentre sono una ex spia giudea al soldo dei veneziani, tradita e condannata e rifugiatasi a Costantinopoli nel pieno del 1500, una voce mi ridesta dal mio universo parallelo, che cosa stai leggendo? Silenziosamente impreco, come sempre silenziosamente impreco quando un esercizio di concentrazione durato minuti interi viene spezzato. Altai, rispondo. Di cosa parla, della Cina? Chiudo il libro, guardo la copertina, in effetti il nome Wu Ming, può trarre in inganno. C'è la mano di un falconiere e un falco appollaiato ed è della razza altai, uno dei più bastardi e dei più spietati, sì insomma, la domanda non è così fuori luogo, guardo l'uomo ma non lo metto a fuoco, mi soffermo sui particolari. No non parla di Cina, parla di Costantinopoli, nel 1500, anno più anno meno. Riapro il libro e non riesco a fermare gli occhi sulla riga giusta che l'uomo si è già seduto e mi fissa e comincia a parlare a voce bassissima. Che cazzo vuole questo?
Mi racconta di lui e della sua pessima giornata, dei suoi quarantatré anni e del suo lavoro in banca. Sono abituato a parlare con le persone è il mio lavoro mi dice. Io non posso fare altro che giocherellare con le mani e cercare eventualmente una via d'uscita. Il finestrino, ad esempio.
Mi racconta della sua pipa che si è rotta e sono due mesi che è a riparare e proprio oggi è andato a controllare l'evoluzione della cosa e il pezzo di ricambio deve ancora arrivare. Dice che si è incazzato. Dice che il mondo è così. Io misuro le parole perché non so che dirgli, e dopo attente misurazioni mi ritrovo a guardarlo e a sospirare. Non è la prima volta che parlo con qualche sconosciuto in treno, anzi a volte penso che sta diventando una pratica comune, solo che in questo l'impressione di qualche rotella allentata è un pensiero difficile da mutare. Ancora immerso nelle trame bizantine e nelle vie strette e scoscese di Costantinopoli, mi ritrovo a guardargli le mani per non trovare nessun anello, il cappotto che non centra nulla con il resto del vestito, le scarpe nere macchiate di pioggia. Intanto mi dice dov'è nato dove vive dove lavora. Lo chiede a me e gli sparo una generica Venezia e uno generico studente. Avrei potuto dirgli, non lo so, musicista, nullafacente, essere umano, ma resto coperto, in attesa di eventuali evoluzioni. Evito di dirgli cosa sto andando a fare a Verona, anche perché non ne sono così sicuro nemmeno io. E' compiaciuto del mio dargli del lei, non si cura che assecondo i suoi viaggi mentali con qualche striminzita parola. Dice che siamo una generazione di sconvolti noi giovani, che non c'è rispetto e che l'altro giorno in treno ha detto ad un ragazzo hai un bellissimo sguardo e il ragazzo l'ha guardato e gli ha riso in faccia e se n'è andato. E ci mancherebbe penso io siamo una generazione di sconvolti senza rispetto ma io le do del lei perché così mi hanno insegnato a trattar la gente sensibilmente più adulta, certo che c'è modo e modo per approcciarsi a chiunque, e dire ad uno sconosciuto che ha un bellissimo sguardo non sempre può risultare la mossa migliore. Che l'asticella del fraintendimento è alta, molto alta. Continua a cambiare discorso, mischiando frasi confuse a risate fragorose, scendendo vertiginosamente di tono fino a bisbigliare. Mi chiede se faccio l'attore, io rido e gli dico di no ma gli chiedo perché. Perché ti prendi il tuo tempo per rispondere, mi dice. Non vuol dire un cazzo, penso. Non mi dispiace l'idea di conoscere una storia diversa dalla mia, che per pochi attimi si è incrociata su un regionale, non sono un attore e anzi devo combattere contro un certo impaccio, spesso e volentieri, penso. Perché sono fatto così, dico.
Verona Porta Nuova mi salva, scendiamo assieme e nel tempo di una rampa di scale dal binario al sottopassaggio mi racconta delle sue quaranta pipe dei suoi mille libri della passione per Sherlock Holmes della sua casa piccola ma ordinata. E' un compulsivo. Single. Un po' folle. Mi stringe la mano e sparisce. Troppe volte mi succede di ritrovarmi nelle stazioni, e di chiedermi cosa sta succedendo attorno. E di non trovare una spiegazione.
Ciao Max, sono arrivato in stazione, ci sei?
Ciao Mattia, cinque minuti e arrivo.