martedì 9 luglio 2013

Mi ritorni in mente.

Mi ritorni in mente ma solo qualche volta. Tutto il resto del tempo lo passo a fare cose, a vedere gente, a sgattaiolare sul selciato imperfetto di Santo Stefano. A dimostrarmi che le cose funzionano quasi come nei film, che gli esercizi di apnea sono durati secoli e secoli ancora, e adesso che le onde sono alte e le risacche insidiose, in fin dei conti stiamo ancora a mollo e non ci sentiamo così in pericolo di vita. E allora mi ritorni in mente, quando la testa resta fuori dall'acqua e le boe sono vicine, mentre lascio nella terza secchetta tutti i pensieri che ho accumulato in un anno e che non ho potuto cacciare fuori prima. Fogli pieni di appunti e metronomi pieni di clic, braccia disegnate e imprecazioni via Thunderbird.
Mi ritorni in mente sempre perché non ho mai imparato a scegliere cosa pianificare e cosa no. E ad un certo punto certe cose hanno deciso di pianificarsi da sole, e certe pagine che sarebbero restate bianche le abbiamo dovute comunque riempire. Mentre altre che le avremmo volentieri strappate sono lì in bella vista, bella grafia ordinata, poche sbavature, nessuna correzione. E allora abbiamo imparato a non star fermi, ad aprire la testa e svuotare sulla scrivania tutte le frasi che accumuliamo di notte, guardando negli occhi degli sconosciuti, ascoltando dischi a cui augureresti tutto il male del mondo, fagocitando canzoni che vorresti fossero tue, conoscendoci in posti impossibili, che qualcosa alla fine torna sempre buono. E così abbiamo imparato ad apprezzare una cosa stabile che ha la faccia di un fruttivendolo, a cercarti con lo sguardo in mezzo alla gente come fosse un gesto naturale, al lato di letto sbagliato. Prestandoti parti di me che è bello vedere quanto ti stiano bene addosso.
Mi ritorni in mente quando ho bisogno di credere che sia giusto così, quando non ho la forza di girarmi e di contare i passi, quando ho bisogno di essere buono con me stesso prima che con gli altri, che sì questo si può fare no questo non è possibile, cazzo pensi di essere Nick Cave? ma detto in maniera molto più gentile. Quando vorrei che qualcuno certe cose le dicesse a me. Quando sostituisco frasi con altre frasi che non dicono niente per mascherare un qualcosa di troppo vero e di troppo scoperto perchè rimanga lì, ma senza avere il coraggio di selezionare in azzurro tutte le parole, premere il tasto canc e bona lè, come direbbe un saggio che abita non troppo lontano da me. Tipo adesso. Quando mi guardo fabbricare favori disinteressati con il desiderio che siano semplicemente questo, niente di meno, niente di più, che magari nell'economia del mondo un giorno mi torneranno indietro ma anche se non tornano non staremo lì a piangere sulla riva del fiume. Mi ritorni in mente quando penso a canzoni che non mi piacciono più, o a canzoni che mi piacciono ancora tanto ma che parlano di papere. Ah, anche quando finito un concerto ho bevuto troppo e mi chiudo in un bagno e prendo il cellulare per fare il tuo numero a memoria e il telefono quasi mi cade dentro la tazza del cesso, ma per fortuna questa cosa statisticamente non mi succede quasi mai.

venerdì 3 maggio 2013

Io non ho speranze, io ho fede.

In fondo non è cambiato poi così tanto, o forse è cambiato tutto. Di sicuro non sono cambiate certe contraddizioni. Come questo foglio bianco che non so se voglio davvero riempire.
Come arrivare a fine mese perché in fin dei conti si è capaci di scrivere e di sintetizzare concetti, ma cadendo costantemente sul filo teso di una chat, in cui rileggersi e sentirsi un coglione perché manco uno di terza elementare riesce a farsi capire così poco.
Come salire su un palco dopo essersi odiati nella mezz'ora precedente, dopo aver gestito a fatica i brividi di freddo nonostante i venticinque gradi fuori, dopo aver ingurgitato bustine di zucchero e averti rassicurato con un cenno della testa che forse la testa non si è nemmeno mossa.
Adesso ce l'ho pure segnato a vita su un braccio, questo insieme di contraddizioni. Anzi, la medicina a queste contraddizioni. Quei discorsi fatti sul palco di un Estragon ancora con i cancelli chiusi e la gente fuori, millemila anni fa. Quella canzone. Quella dedica. Le cadute e le onde lunghe. Quel libro perso e poi ritrovato. I ritorni.
Ora c'è solo un modo diverso di sospirare, quando sono le cinque del mattino, nel momento in cui prima di svenire ci si guarda intorno per capire dove ci si sta per addormentare, che sia Bologna, o Firenze, o qualche paesino delle Marche. Ora, come dire, ci si rende conto di dove finisce il proprio corpo e di dove comincia il resto, compreso tutto quello che si è incamerato.
Sono diventato tutti i passi che ho percorso, perché li ho vissuti uno ad uno. Rido di meno ma rido più forte, più in profondità, perché ridere in fondo è una cosa bella e delle cose belle non ci si stufa mai.
Parlo di più ma a volte metto il pilota automatico, perché per quanto sia devi sempre essere qualcosa e allora è meglio che quel qualcosa non sia necessariamente odioso, o metereopatico, o semplicemente stufo di essere quel qualcosa. Vivendo la contraddizione di apparire più stronzo di quel che sono, con le persone con cui vorrei essere semplicemente io, con il bisogno ogni tanto di non pensare, di abbassare la guardia, di abbracciarsi. Penso di più perché non si torna indietro, e alla fine non sono più lo sbarbo della ciurma, in ogni situazione. Ci si scherzava anche in mezzo al macello del primomaggio di Padova mentre tentavo di placare l'adrenalina postconcerto, ma ci si scherzava un po' meno quando siamo entrati nel nostro solito locale a quattro passi dal mare per inaugurare la nuova stagione estiva, e ci siamo sentiti tutti da pensione. E nel mentre, a nostra insaputa, avveniva questo cambio generazionale, ho imparato da gente che la sapeva lunga e anche da chi non sapeva un cazzo, che sono due modi diversi di imparare ma alla fine qualcosa rimane sempre. Ho imparato cosa non voglio fare, finalmente, e questa cosa forse era la meno scontata di tutte.
So cosa mi manca e quanto mi manchi e dove mi manchi, riconosco i tuoi respiri, la tua presenza e ancora di più la tua assenza, riconosco gli odori e conservo in una remota parte del cuore una gamma di sensazioni che non voglio decifrare, che sono un groviglio di cose che rimangono lì e hanno un peso che mi fa sentire meglio.
Ma non è facile per niente. Nel ritrovarmi poi a guardare fuori dal finestrino la pianura padana che scorre, Giallo che elogia la sua nuova macchina dopo la brioches e il cappuccio delle tre di notte, il bagagliaio pieno di strumenti, il ronzio dentro l'orecchio dove da un mese mi somministro un metronomo a tutto volume per ore e ore, un disco che non sopporto nel lettore, una sigaretta tra le dita, e pensare che in fin dei conti questo è quello che voglio essere. So che non è facile per niente, so che è tutta una contraddizione. Ma così deve essere. Ma così voglio che sia. Non potrebbe essere altrimenti.
Io non ho speranze, io ho fede.

lunedì 4 febbraio 2013

Ho tutto in testa ma dopo le sette non ho voglia di dirlo.


Hai ragione tu, che una volta era più bello quando avevamo più tempo per le nostre cose, per scrivere di niente o di qualcosa. Quando si potevano gestire i pomeriggi infilandoci dentro riflessioni e cripticismi, quando c'erano gli anni dell'università e i miei sogni sbilenchi, quando andavano i blog che non ho mai aggiornato l'età ed il gruppo, che i Blake/e/e/e non ci sono più da un bel po' e non ci sono nemmeno più gli anni segnati nella biografia, o quella cosa lì. Ma non cambio niente, che tanto è inutile, che l'ultima volta che sono tornato qui ero bruciato dal dispiacere di aver visto sfumare in modo assurdo un matchpoint per uno scudetto arrivato la settimana dopo. Che ne abbiamo parlato ieri sera di cosa fa il calcio alla gente e di cosa fa la gente per il calcio, che alla fine è un oppio tanto quanto una religione. E tanto quanto una religione perde credibilità all'aumentare dei soldi che ci girano attorno, ma è difficile come poche altre cose dire non ci credo più. Mica è babbonatale, mica abbiamo sette anni. E se cresciamo e certe cose non riusciamo a farcele cambiare, significa che le cose stanno così e che non cambiano, nonostante tutto, nonostante noi. Mentre aspettiamo l'apertura delle scommesse sui suicidi in Brasile se i giocolieri verdeoro perderanno il mondiale tra le mura di casa, come nel 1950.
Come ti sto dietro nelle domeniche bolognesi a sbirciare nei negozi, io come mille altri uomini dietro alle proprie donne, tutti con la faccia un po' stranita e un po' seccata, tutti così umanamente vicini quando ci si incrocia con gli occhi e ci si sente parte di uno stesso destino, che si declina in molti modi ma che ci condanna ad aspettare l'impareggiabile offerta del 70% di sconto.
Come mi sto sul cazzo se penso a quello che mi sono perso e a cosa ho lasciato andare, per rincuorarmi con quello che sono diventato che magari non è niente o forse è già qualcosa. Come mi sfinisco davanti a pagine bianche che diventano piene a comando, come le deadline che non rispetto perché bisogna riequilibrare le vostre deadlines che non rispettate mai. Tu non lo credi ma io lo so, e lo so bene, che ogni tanto mi fermo e penso a ciò che era e ciò che è adesso, a queste mattine e questi pomeriggi così diversi da somigliarsi tutti, anche passando di regione in regione e di treno in treno, che i treni sì che sono sempre quelli, anche cambiando le destinazioni e le stazioni centrali.
Come alla fine mi sono messo seduto a costruire questa piramide di lego, fatta di comunicati di mail di telefonate fiume di conversazioni skype incrociate e di citazioni rubate, e dell'odio che ogni tanto provo per voi, chiunque voi siate, qualunque cosa voi stiate facendo in questo momento. E ci sei tu e ti ricordi quando ho cominciato, più o meno, quando ci osservavamo da distante mentre adesso se siamo distanti sentiamo che ci manca qualcosa. Ecco, se è cambiato qualcosa, è cambiato questo, è cambiata la distanza che determina la sensazione di mancanza tra me e te.
Com'è cambiata la distanza tra me e i miei talenti, ma se dico talenti magari si pensa a chissà che cosa, e invece realizzo che nello specifico i miei talenti adesso sono una capacità appena sopra la media di dare un senso ad un numero casuale di parole, e quindi chiamiamoli pure talenti come quei nove nelle versioni di greco che a rileggere la brutta copia erano dei quattro sicuri. Quelle cose sgrammaticate che funzionano perché nonostante tutto hanno un senso, che bastano un po' di correzioni al volo per farle luccicare, finalmente. Come le recensioni che copiate e che ci ridiamo su, che alla fine mi sono giocato anche Tondelli ma non è la prima volta che mi prendono una frase e magari a qualcuno è servita più che a me. Magari per descrivere al meglio il casino di certi incroci, che per me quando ne scritto era l'anarchia tra via Palagi e via Massarenti, e per te chissà cos'era. Ma alla fine, con tutte le cose che vi ho rubato io, possiamo anche dire che siamo pari. Come cominciare due comunicati allo stesso modo e non rendersene conto fino a quando appaiono uno di fronte all'altro, distanziati giusto da un ventaglio di imprecazoni.
Vedi la cosa bella di scrivere qui e di rileggere pochissimo è che i fili logici e i metodi scientifici non servono a niente, appesantiscono i flussi che troppo spesso non riesco a fermare e che emergono appena sotto la pelle quando si è distesi a letto da minuti che diventano ore e non c'è niente per farseli andare via. E non c'è un foglio e una penna e nemmeno il computer acceso, che adesso alle sette della sera quando smette di fischiare la ventola del mac mi sembra di respirare un po' meglio. Ho tutto in testa ma dopo le sette non ho voglia di dirlo.
E la cosa bella di scrivere qui è che fondamentalmente non me ne frega più niente, e come sempre quando non me ne frega niente inconsciamente ci torno, come forse hai ragione e inconsciamente mi piace lavorare con gente che non sta bene. Ma ho imparato, come in quella dedica da papa apocrifo che ancora conservo, che certe cose si fanno fondamentalmente perché bisogna avere fede, qualsiasi cosa voglia dire. Perché anche se abbiamo lasciato un po' tutto incompleto e me ne dispiaccio un sacco, se ci crediamo forte le cose succedono.
E in fin dei conti, adesso sono nella famiglia, adesso non ho bisogno di te che mi perdoni (questa è rubatissima, come molte altre cose, sia chiaro), adesso mi guardo indietro e sono passati anni e mi guardo avanti e mancano pochi minuti alle sette. Adesso che avevo un pensiero bellissimo ed è bastato l'ennesimo rumorino standard di skype per farmelo perdere ed era proprio qui, cazzo.
Adesso che non devo per forza trovare un senso alla mia passione per il calcio, alla bellezza di certe parole che suonano così bene una accanto all'altra, alla bellezza anche di una certa scrittura istituzionale.
All'assurdità di essermi svegliato con la paranoia di te che mi dici che una volta scrivevo più per me che per gli altri ed era bello, e di non finire le millesettecentocose che mi ero segnato di fare. Alla finele cose da fare erano molte meno e le ho finite molto prima. E mentre ti aspetto, mentre conto i passi che ci distanziano, mi ritrovo qui. E sorrido, come ritrovarmi in un posto in cui una volta ci passavo molto tempo della mia vita e che di colpo senza ragione ho smesso di frequentare. O forse perché erano emerse così tante ragioni per non tornarci più.

giovedì 3 maggio 2012

Considerazioni su un pareggio diverso dagli altri.


Ammetto sia molto strano, parlare di queste cose in questo modo. Soprattutto qui, dove ci torno sempre meno, dove ho sempre evitato di parlare di molte cose, al massimo accennandole. Ma ieri sera, durante Juventus-Lecce, terzultima di campionato, possibile primo match point per lo scudetto contro una squadra praticamente spacciata e in dieci uomini, dopo una partita dominata ma non chiusa, dopo lo sciagurato errore di un signore che piglia una vagonata di milioni l'anno e che con tutto il bene del mondo è lontano dai fasti di un lustro fa, dicevo durante Juventus-Lecce 1-1, è successo quello che è un piccolo, immenso, dramma.
Per me, ovvio, perché qui si parla di me. So che Buffon avrà fatto fatica ad addormentarsi stanotte, ma sono cazzi suoi, e sarebbe troppo riduttivo fare il populista dicendo che se prendessi io tutti quei soldi andrei sempre a letto beato e contento. Cioè, l'ho detto, ma non lo penso, anzi immagino questi due metri d'uomo bestemmiare tutta la notte, e dispiace. Come mi dispiace per qualsiasi atleta che non sia del Milan, dell'Inter o del Real Madrid.
Non c'è un motivo reale per essere juventino, da sempre. Torino è distante centinaia di chilometri da casa mia, casa mia ha una squadra che fino all'anno scorso aveva la maglia granata (prima che arrivasse uno con i soldi e qualche discreta mania di grandezza, e smontasse e rimontasse due squadre, cambiando ragioni sociali, colori sociali, perdendo una delle più belle curve del nordest, una curva che in serie D faceva una media di 500 persone, ma questi sono altri discorsi...) in onore di due fratelli morti schiantati contro la basilica di Superga, in quella che è stata la fine del Grande Torino. Invece sono juventino, passione trasmessa da mio padre, mentre da piccolo tutti erano del Milan, che in quegli anni stravinceva. Alle elementari ero l'unico in mezzo a uno stuolo di rossoneri, ricordo di essere stato costretto a tutti i compleanni altrui del 1994 a guardare Milan-Barcellona 4-0.
Ma son sempre stato fiero di questa inspiegabile appartenenza, sarà che il calcio mi è sempre piaciuto, sarà per i ricordi sfocati di mio padre, con la maglia nera da portiere come quella di Dino Zoff. Sarà che non ho mai potuto farmi l'abbonamento anche se c'ho pensato per anni, sarà che ho scelto altre strade, ma ogni volta che c'è stata la possibilità, da ormai quasi venti anni, non ho dubitato un secondo per prendere il biglietto e andare allo stadio.
C'ero a Padova quando Baggio ha infilato una punizione sul sette prima di lasciare il testimone a Del Piero per i successivi diciotto anni (il gol vittoria fu di Ravanelli, che si incazzò con Lippi per averlo lasciato fuori), c'ero a Torino quando abbiamo vinto lo scudetto contro il Bologna (tripletta di Inzaghi, gol e magie assortite di Baggio), c'ero a Perugia quando ci hanno annegato per farci perdere il tricolore (non c'è niente altro da ricordare, se non che un intervallo di un'ora è quantomeno surreale, che la metà campo della Juve era stata drenata mentre quella del Perugia no, per cui attaccare era impossibile, ma anche prendere un gol dal Perugia sembrava impossibile...), c'ero a Trieste, e a Torino nello scontro al vertice contro il Piacenza perché, anche con la serie B, bisognava essere in curva a urlare (Triestina-Juventus 0-1, gol di Zanetti, uno dei pochissimi, segnò la settimana prima contro il Treviso, e Juventus-Piacenza 4-0 con primo gol di Trezeguet dopo 15 secondi, alla faccia dello scontro al vertice). C'ero a Bologna, quest'anno, a prendere tutto il freddo del mondo.
C'ero molte altre volte, e quelle volte che non c'ero, ero davanti alla tv, o davanti ad un computer scattoso implorando che non si bloccasse continuamente lo streaming, c'ero da qualche parte con la radiolina nell'orecchio.
Una volta, per un Juventus-Inter (5 dicembre 2009, 2-1, gol in mischia un po' di Chiellini, un po' di Del Piero, un po' di quel coglione enorme di Felipe Melo, pareggio di Eto'o, gol vittoria di Marchisio, un capolavoro), un concerto dei Blake/e/e/e è cominciato mezz'ora dopo, non tanto perchè a dei napoletani interessasse la partita più di un nostro concerto, ai gestori non interessava, ma perché me ne stavo in un bar di fronte al locale a guardarmi il match, e non c'erano cazzi, ero stato chiaro fin da subito.
E quelle volte che non c'ero, in realtà molto poche, sono state per cause di forza maggiore. Rimpiango solo una manciata di partite, che non ho visto per motivi inutili, e di cui mi pento e mi dolgo con tutto il cuore (una in particolare, che non dirò).
Insomma, non sono un tifoso alla Hornby, ma la Juve, come l'Arsenal per lui, è per me qualcosa di più che un semplice passatempo domenicale, che poi ultimamente non è più solo domenicale, ma è anncquato durante tutta la settimana, perché la televisione mangia tutto, anche le passioni.
Per questo le gioie e i dolori della Juventus sono state un po' anche le mie. Per questo ho pianto di gioia e di rabbia un mucchio di volte, che adesso non si piange più ma si sta male uguale. Per questo un credo così forte, così profondo, così radicato nel tempo, necessariamente scombina le giornate e gli umori. Magari c'è chi non capisce, ma sono sicuro che c'è anche chi, e ce ne sono molti, questa cosa la comprende benissimo.
E con molte di queste persone, quelle che almeno conosco e che negli anni, grazie ad uno pseudolavoro abbastanza itinerante, sono incrementate sensibilmente di numero, si è passato più tempo a discutere di quanto sbagliato fosse acquistare Amauri o affidare la squadra a Ranieri (uno che preferisce Poulsen a Xabi Alonso, che cazzo di allenatore è?), piuttosto di trovare folli gli sproloqui qualunquisti di Beppe Grillo, tanto per tirare in ballo tre esempi a caso, per non dire tre verità conclamate.
Quindi, tanto per non perdermi troppo in vaneggi inutili, il succo del discorso è questo: il gol di ieri, il modo in cui è avvenuto, il sentore che mi portavo dentro da quando il succitato signore che piglia una vagonata di milioni di euro l'anno aveva fatto un maccherone simile a quello che poi ha portato al gol del pareggio, ha portato a fior di pelle tutte quelle sensazioni che una persona "normale" riterrebbe folli. Tu compresa. E che nemmeno tutte le sigarette fumate nel postpartita hanno minimamente affievolito.
Perché una persona "normale", nonostante tutto, non penserebbe mai alla sfiga cosmica, ma semplicemente ad un errore di uno che comunque è considerato uno dei migliori portieri del mondo se non il migliore, ad una partita che come tutte quelle di quest'anno ci ha visto stradominare grazie anche e soprattutto ad un allenatore geniale in campo e irritante fuori, ad un piccolo incidente di percorso che rende tutto più piccante, in attesa di domenica prossima. Invece io, fino a domenica prossima, malgrado tutto il sangue freddo e le maschere che indosso, so già che starò di merda, perché (e qui prendo in prestito Hornby) pochi dei giocatori di questa Juventus memorabile hanno a cuore le sorti di questa squadra da così tanto tempo, da oltre ventanni. Non è un punto di merito, è un dato di fatto. Domenica avrò una collezione di farfalle nello stomaco, probabilmente già dal mattino, anche se ammetto che molto dipenderà anche dalle evoluzioni dei nostri sabato sera, che non sempre sono, come dire, da sportivi.
Perché soffriamo come dei cani e non possiamo farci niente, perché Caceres, Bonucci, Estigarribia, Vidal, Quagliarella, Vucinic, Borriello, non sono finiti all'inferno come me contro il Borussia Dortmund, col Real Madrid, col Milan a Manchester (magari qualcuno di questi avrà pure goduto...). Perché la gioia di Roma, del 5 maggio (dopodomani sono 10 anni, e io il pomeriggio del 5 maggio 2002 potrei raccontarvelo minuto per minuto da due ore prima della partita fino alle undici di sera, per dire), è una gioia che non tutta la rosa multimiliardaria 2011/2012 ha provato.
Tutto questo per dire che nonostante tutto, nonostante il caso, con la Juventus è un'altra storia. Subire così tanto un risultato, è terribile. Arrivare così vicino, e poi cadere, magari cadere ancora in piedi, e non poterci fare niente, è tremendo. E se le sfighe e le fortune di una squadra influenzano anche solo di striscio le tue fortune e le tue sfighe, allora viene naturale fare un computo generale di tutto quello che è successo in questi anni, e si scoprirà che la delusione di ieri sera, per quanto spero con tutto il cuore che possa essere solo un incidente di percorso che renderà il campionato più bello (cosa che penserebbe appunto una persona "normale"), è un qualcosa che ci appartiene, da sempre.
Perché l'abbiamo presa sui denti milioni di volte, perché quando bastava un gollonzo contro un avversario palesemente inferiore, Ibrahimovic mandava l'unica palla buona oltre la curva (Juventus-Liverpool 0-0, aprile 2005), perché quando era praticamente fatta, capitava l'inimmaginabile (Nedved diffidato che si fa ammonire a cinque minuti dalla fine di un Juventus-Real Madrid 3-1 semifinale di Champions, e i milanisti non lo possono capire ma noi la coppa l'abbiamo persa nel momento in cui l'arbitro ha tirato fuori quel cartellino giallo, dopo la partita perfetta), perché Calciopoli, perché gli ultimi cinque disastrosi anni (signori, non siamo l'Inter, non abbiamo un eterno bambino come presidente), perché adesso che siamo così vicini ad un risultato enorme, forse più enorme della Champions contro l'Ajax, la sfiga cosmica si è abbattuta ancora, imperterrita, su di noi, su di me.
Magari alla fine ci rideremo su, arrampicandoci sul monumento del marinaio come quel 5 maggio 2002 (con annessa professoressa di latino che mi incrocia per strada, sciarpa bianconera al posto della cintura e maglietta da gara 1996-97, e che mi interroga sistematica e puttana il giorno seguente).
Ma intanto, nonostante anche per il tifoso più fatalista e paranoico questa sia una delle Juventus più belle degli ultimi trentanni, molto più entusiasmante della Juve di Capello e pure di quelle di Lippi (su quelle precedenti non mi pronuncio perchè il calcio è cambiato troppo, anche se di vecchie partite ne ho viste una quantità esagerata), intanto sono qui a pensare che questa sfiga cosmica ce la portiamo dietro, come una condanna, nei piccoli infortuni come nelle partite della vita.
E a meno di incredibili e imponderabili eventi, come una totale disaffezione per il calcio e per la Juventus (cosa che poteva essere dopo Calciopoli ma non è stato, per cui ora la vedo probabile quanto andare a suonare la batteria con i The National), so che questa condanna ce la porteremo dietro fino all'ultimo, fino alla fine.
Ieri sera, nel piccolo, nonostante siamo uno squadrone e siamo sempre davanti, ne è stata l'ennesima prova.

Primo post scriptum, su Buffon.
Lo considero un campione, più come calciatore che come uomo. Ha dimostrato molte volte di non essere troppo mirabile, come uomo, e non sto parlando delle pubblicità.
Con mio padre mi scanno più per difendere lui che per infamare il PDL (calcisticamente parlando, mio padre non riesce a vedere Buffon, sarà che per lui c'è solo Zoff, mentre sul PDL non sto a elencare i motivi per cui a lui sta più a cuore di me...), anche se ammetto che la componente litigiosa quando discuto con mio padre di qualsiasi cosa rende spesso i nostri scambi, come dire, poco oggettivi.
Dicevo di Buffon, ha dimostrato per una carriera intera di essere un fenomeno, ma è un fenomeno che si sta spegnendo, com'è normale. Non parlo solo di ieri sera, ci mancherebbe. Solo che quando l'immagine del fenomeno che fu finisce per nascondere il reale valore del giocatore, allora bisognerebbe cominciare a farsi qualche domanda. Resterà per sempre il mio portiere bianconero, come per mio padre è stato Zoff, ma è clamorosamente falso leggere oggi che quello di ieri è stato il suo "unico errore del decennio": ci sono state le svisate col Chievo e con l'Atalanta, per ricordarne due altrettanto clamorose ma per fortuna ininfluenti (come speriamo questa), ci sono dei riflessi che non son più quelli del ragno d'oro di Germania 2006, c'è una posizione non sempre perfetta e dei piedi che neanche la decima scelta nelle partite di calcetto. Tutto qui.

Secondo post scriptum, su Delio Rossi.
Ha tutta la mia stima. Punto.

Terzo post scriptum, su Mourinho.
Proprio ieri sera doveva vincere la Liga?

martedì 10 aprile 2012

Sostenere la buona riuscita di un'impresa.

Dovrei riprendere da dove ci siamo fermati, da quei pomeriggi di maggio che poi forse era ottobre. Dalla pioggia che ci ha sempre dato fastidio, dal freddo che non ci è mai piaciuto. Reduci da giornate infinite, che suonano stonate un po' come noi, vagando tra terrazze e mansarde, e teatrali discussioni su chi vincerà il campionato, che ce lo meritiamo tutto anche per tutte le birrette che abbiamo bevuto per onorare quasi tutte le partite di quest'anno.
Ognuno ha un modo proprio di sostenere la buona riuscita di un'impresa.
Dicevo, dobbiamo. E per una volta non siamo in tre o quattro ma siamo in trenta ed è appagante, anche se siamo sempre di poche parole, anche quando confrontiamo le nostre convivenze e parliamo a bassa voce che non si sa mai. E ripensandoci forse è la prima volta che succede.
Finalmente è finito questo weekend lungo, e ci mancheremo come gli anni che passano. Come le canzoni di Dimartino, come le mattine in cui ci copiano. Che bello anticiparvi, mentre per ogni più nascondiamo con il sorriso una meno, come i martedì sera che esplodono in un camerino. Che bello anticiparvi, chiudersi in una stanza mandando in distorsione le casse dell'impianto, poi giocare da fermi per avere più fiato per lamentarsi. Non ho mai detto di essere una brava persona, però giuro che ogni tanto mi impegno, e provo a prendermi cura di quel pugno di cose che contano davvero, e tra queste ci metterei anche te se non sapessi che alla fine non ci conti più di tanto, che forse sono ancora troppo sbarbo e troppo inclinato verso di me per arrogarmi diritti che non ho. Che ogni tanto non voglio avere responsabilità, mi basta una bicicletta e la bora se devo andare a sud o lo scirocco se devo andare a nord, così per fare meno fatica.
Ma penso sia una cosa legittima, no?

giovedì 29 marzo 2012

Gli altri.

Ogni tanto ci sono degli strappi, improvvisi, qualcosa che non immagini fino ad un minuto prima. Qualcosa che ti lascia sveglio mentre stavi per addormentarti più o meno tranquillamente. Qualcosa che non puoi aspettarti, perché esce dalle logiche, da qualsiasi logica, frutto di una manciata di parole, di buone intenzioni lasciate a se stesse. Dell'appoggiarsi a chi non sta in piedi, come certi barboni in via Rizzoli, curvi su un bastone da non capire dove finisce il corpo e dove comincia la testa.
Frasi corte e spezzate come i messaggi che non ci scriviamo più. Combattiamo questi strappi a colpi di Califone e di sveglie anticipate, così proviamo a fare colazione assieme perché insieme non ci addormentiamo mai, che è bello dividerci il caffè e salutarci di fretta prima che tu perda l'ultimo autobus e io mi accenda la prima sigaretta.
Ma te l'ho detto, chiuderei volentieri gli occhi un secondo prima di te, in modo che restasse solo questo, a dare un senso a delle giornate tutte uguali eppure sempre con delle incognite nuove. Te l'ho detto, lo farei, solo che non ci riesco. E non è nemmeno colpa mia, e la colpa è dell'instabilità, dei video commissionati, di chi crede alle favole, dell'odio duepuntozero che passa attraverso chilometri di mail firmate, del bambino che non sono più ma che era leggermente più convinto di cosa fosse bene, e cosa no. Restano cicatrici sulle mani, bruciature da caffettiera e passeggiate eterne per prenderci un po' di quel sole che sembra scaldare tutti. Gli altri.

giovedì 9 febbraio 2012

Alla fine sei tornata.

Ho passato una buona dose di tempo a pensare sul perché smetter di scrivere qui, che alla fine avrei potuto riempire una piramide di cartelle. Di impressioni, di cambiamenti, di accenni di barba, di vittorie di sconfitte di pareggi noiosissimi.
Perché una certa intimità è molto più bella da vivere che da raccontare, perché il limite tra cosa pubblica e cosa privata si è necessariamente spostato e non ho ancora avuto bene il coraggio di valutare quanto.
Mettiamo dentro che le ore hanno una conformazione diversa, adesso, che ci sono autobus da prendere alle 08 o alle 16 o massimo massimo alle 24, se proprio vogliamo permetterci tutto il tempo del mondo, mettiamo dentro che certe parole ingarbugliate finiscono in frasi troppo corte per avere una qualche funzionalità qui. E continuamente qualche io silenzioso mi impone di lasciar perdere i tempi morti presentandomi continue caselle da spuntare, perchè più che un io categorico è una specie di lavoro e più che una specie di lavoro al momento sono due.
Avrei potuto provare a descrivere come ci si sente a camminare con un eastpak pieno di moduli rossi da far compilare e le mani congelate e meno tre gradi in una città morta di viuzze scure e di campanelli staccati.
Avrei potuto provare a sedermi ancora su una batteria o dirti di sì ad una cazzo di jam session, ma non era il momento, non ancora. Questa cosa di prepararsi deditamente ad un ritorno è una cosa che non so definire, ma che parte dalla testa più che dalla sensibilità delle dita.
Sarà che davvero, ho paura nell'attraversare certi punti di contatto, come questo, dove le difese sono più basse, dove le difese sono assenti. Come quando ogni sera ti guardi allo specchio per capire se non sei più il ragazzino di un tempo. Quello timido che sragionava sul demo registrato in una camera con i materassi sulle porte e sulle finestre, sul compito di matematica che poteva andare meglio e lo si è capito quando la prof gli ha lanciato dietro l'astuccio di latta.
Ma davanti non c'è nemmeno un uomo, ci sono dei cambiamenti dati dalla voglia di farsi o non farsi la barba, al massimo. Allora volendo è troppo presto anche per rassegnarsi all'idea del calciatore che avrei potuto essere se fossi stato un po' più dotato e un po' più costante, che non l'ho detto a nessuno ma certi goal, certi passaggi impossibili che poi si vincevano le partite, certe esplosioni di gioia e di rabbia e di adrenalina pura, me li sogno ancora come se li avessi vissuti ieri. Avrei dovuto essere anche molto più veloce.
Sarà che sto leggendo la versione di Barney ma capita anche a me di perdermi nei discorsi, solo che lì scriveva un malato di alzheimer con quasi settanta anni di vita da raccontare. Tipo ieri sera.
Mi hai detto che la laurea cambia le persone, anche se abbiamo riempito lo spazio eterno tra una pizza e un dolce per scannarci nel dire tutti che queste lauree sono ridicole. Io ovviamente non ti ho creduto e penso di non aver nemmeno nascosto la cosa più di tanto. Credo in qualcos'altro, credo sia qualcosa che viene più dal fegato che da un pezzo di carta e da una cicatrice che porterò per sempre e che ogni volta ti stupisci di quanto sia profonda. Però qualcosa è cambiato, se ci crediamo forte e se ci sbattiamo fortissimo le cose succedono. A volte non è giusto, la mancia è misera, ma è così. Forse per questo non abbiamo tempo, che è un motivo che ritorna spesso in questi anni ma adesso è così davvero.
Non mi hai detto che a casa siamo sempre di più e la cosa non è nemmeno così ingrata, che abbiamo una caffettiera nuova e le scorte di pasta e di pastiglie per la lavastoviglie. Viaggiamo su questi silenzi che non ci fanno stare male, al massimo bestemmiamo sottovoce fumando una sigaretta dietro l'altra per i chilometri che ci dividono tra Milano e Bologna, dividendoci tra la voglia di arrivare a casa prima che faccia giorno e la necessità di arrivarci interi.
Non mi ricordavo quando saresti tornata, ma sei tornata e mi hai chiamato subito, e all'inizio non ti ho nemmeno riconosciuto. Colpa del telefono che non prende e della neve, ancora. Pensavo fosse una cagacazzi del censimento.
Così mi ritrovo qui, a collezionare regalini presi negli autogrill, a pensare che non siamo poi così lontani. Che dopo aver migrato per le poste e le filiali di unicredit e la coop sempre più razionata "causa abbondanti nevicate su tutto il fronte emiliano", alla fine sei tornata. E ora non mi resta che tornare anch'io.

martedì 3 gennaio 2012

Te la ricordi Berlino?


A volte capita di impantanarsi e di avere l'impressione di restare immobili. Allora servono le scosse. Allora capita che finalmente siamo andati a Berlino, e abbiamo approfittato di tutte le cose che ci hanno riempito gli occhi e il cuore per scriverci un po' su. Ma a volte scriverci un po' su non basta: a volte bisogna fare le cose in due, perché quattro erano gli occhi riempiti, due i cuori. Il mio, e quello di Teresa. Quello che segue è un post scritto a quattro mani, ci abbiamo messo più del necessario, ma chi ci conosce sa che abbiamo i nostri tempi. Dopotutto, siamo tornati ieri da un'altra capitale.


Ce lo eravamo promessi troppe volte per rimandare ancora. Era diventata una cosa necessaria. Così necessaria come rimettersi a scrivere, ogni tanto, per fermare un po' di quei pensieri che scorrono sottopelle e che difficilmente, di questi tempi, vengono in superficie.

Poteva essere Bruxelles, poteva essere Siviglia, poteva essere Lisbona. Invece malgrado il freddo e l'ora legale, avevamo voglia di Berlino. Perché o non ci siamo mai stati o ci siamo rimasti così poco per farcene davvero un'idea, per poterci dire l'abbiamo vissuta. Perché Berlino è una città che si vive, non si visita.

Avevamo il nostro albergo superlusso in superofferta e le sue colazioni all you can eat, avevamo una cartina scarabocchiata sempre più illeggibile e un libricino con un po' di possibili mete, quasi tutte senza indirizzo, quasi tutte scelte d'impulso. Avevamo noi. Non hai pensato anche tu che mai come questa volta poteva bastare?

Camminiamo molto, camminiamo che mi si leva un tacco, che ci perdiamo a Kreuzberg, e non per colpa di quel mercatino lungo il canale. Camminiamo verso qualche parte, com'era. Non ci curiamo di tutti quei posti in cui non siamo stati, e non ci curiamo dei musei che abbiamo lasciato ai giapponesi, nemmeno di quelle cose che a sentire i rumors, erano imprescindibili. Ma non avete visto il museo sull'olocausto? Lo ha fatto l'architetto quello là! È il simbolo di Berlino! Ma non siete andati al Tacheles? Ma è il centro sociale tra i più fighi d'Europa! Ma allora non siete stati davvero a Berlino! Forse non siamo stati davvero a Berlino anche se ci pareva, ma quel posto che invece abbiamo visto noi ci è piaciuto e ci è bastato e ci saremmo stati di più, così magari avrei preso qualcosa oltre a delle mentine della DDR e un balocco da attaccare all'albero di Natale. Così magari avrei trovato il mercatino delle pulci aperto, e non eccezionalmente chiuso.

Berlino è la città meno tedesca della Germania. Per i ritardi sulle date di fine lavoro nella metropolitana, sembra quasi una città italiana. Berlino sono le comunicazioni di servizio in una lingua dura come il marmo, impossibile da districare. Dopo venti minuti eravamo già fuori strada, a chiederci come fosse possibile nonostante lo stato d'allerta massimo, a intercettare emigrati italiani che ci confidano come sopravvivere ai cambi e alle intersezioni delle varie linee di U-bahn.

Qui se non esageri con piumini lucidi o Timberland, nessuno sa che sei un turista. Certo, devi spesso tacere, non essere sguaiato, però ci sono anche gli italiani che vivono a Berlino e tu potresti essere uno di quelli. Potremmo essere due di quelli lì. Ma è sempre il solito problema di chi è nato a cento metri dal mare. Puoi andare ovunque, ma poi l'odore di salsedine ti richiama a casa. Perché è quell'odore, casa.

Ci sono strade lunghe e ampie a Berlino, strade ordinate e con poco traffico, parcheggi con macchine che non abbiamo mai visto parcheggiare ma sono tutte lì messe per bene, dove si può e non dove secondo me non disturba nessuno.

Ci ha abbracciato la nebbia, stagnante nelle carreggiate a tre quattro cinque corsie, ci siamo abbracciati e abbiamo marciato verso la porta di Brandeburgo. Ci siamo stupiti di essere solo noi e pochi altri a camminare in posti che avremmo immaginato tracimare di umanità brulicante e di macchine digitali. Ci siamo stupiti dei parchi senza recinzioni che sembrano quasi foreste, che quando il sole scende ti viene da pensare siano da evitare e invece vedi un sacco di gente che si avventura dentro per correre. E non ci sono i lupi cattivi.

Abbiamo dimenticato di fotografarci, abbiamo dimenticato il tempo che scorreva sotto la torre di Alexander Platz, senza il suo pallone dorato oscurato dalla nebbia. Sotto i tigli abbiamo pianificato le nostre giornate, promettendoci reciprocamente di saltare negozietti di vinili e franchising di vestiti, a meno di folgorazioni eccezionali. Siamo stati quasi bravi.

Quando una birra in un posto qualsiasi costa almeno un euro in meno rispetto ad una birra in un baretto smarzo italiano ben selezionato, allora non serve nemmeno pianificare troppo il da farsi, possiamo concentrarci sugli hamburger più esagerati del Mitte, possiamo spararci degli shortini di Jagermaister per provare a sopravvivere ad una serie di digestioni che si preannunciano difficili.

Ogni tanto ci sentiamo inadatti ai palazzi così alti e agli angoli squadrati delle vie di Kreuzbeurg, scoprendoci inseriti in un tessuto che non conosciamo ma che con un minimo di attenzione non si dimostra per niente complicato. Che quasi si indossa bene, come ai manichini delle vetrine a cui resisti per due giorni abbondanti.

Gli spaccati di vita nella DDR, i tipi poco raccomandabili che fottono banconote da cinquanta euro ai polli di Karl-Liebknecht-strasse, le foto così e così che un effetto vintage sembra poter rendere migliori. Ci siamo dimenticati l'ipod e ce ne siamo ricordati all'ennesimo passaggio obbligato per Alexanderplatz, perché ti sarebbe piaciuto guardare quella torre imponente con Battiato nelle orecchie, tutte le volte che lo abbiamo ascoltato guardando tutti questi palazzi che ci crescono attorno e dentro cui non ci abiterà nessuno.

Ognuno si fa gli affari propri, ognuno parla a voce bassa, noi continuiamo ad uscire dalla parte sbagliata di Wittenbergplatz, tra l'Harrods berlinese e la Siae tedesca. Il male assoluto, il male che non dorme mai. Ma almeno questi lavorano.

È nel Mitte che hai voluto rimanere qualche istante in più in un negozio perché volevi capire che canzone era quella appena iniziata che poi era Se io non avessi te di Nek. Siamo usciti ridendo e portandoci dietro quella dannata canzone per tutto il pomeriggio. Cambiamo latitudine, siamo in una delle città più effervescenti d'Europa ma è chiaro che ci si può annoiare anche qui, ci si può divertire squallidamente anche qui. Si può passare un sabato sera in un pub dentro un centro commerciale chiuso, dove rimangono aperti solo due bar e una discoteca al piano più alto. Dove le donne bevono prosecco con ghiaccio e gli uomini boccali di birra. È altrettanto chiaro che i capperi li assoceremmo a Pantelleria, al sole, alla dieta mediterranea, e non ad un'antica ricetta prussiana di polpette di carne, panna, vino bianco e due patate lesse intere, minacciose. Di sicuro sbagliamo nel non conoscere come si dice cappero in inglese e tanto meno in tedesco; ed è così che me ne ritrovo un vasetto su un piatto già pesante soltanto alla vista. Di sicuro sbaglio a non optare per una zuppa con barbabietola, pancetta e abbondante panna. Di sicuro è arduo avere una digestione difficile e vivere a Berlino. Di sicuro c'è da aggiungere l'intolleranza a ingenti quantità di curry wurst al richiamo del mare.

Quando abbiamo deciso di puntare ai musei è stato come scendere da una giostra lunga decine e decine di chilometri, abbandonare una modalità per abbracciarne un'altra, come arrendersi al flusso tipico di ogni metropoli che si rispetti. Ma gli egizi li conosciamo a memoria, e allora ci siamo incastrati tra Warhol e le seghe mentali di troppa arte contemporanea, tra istallazioni e video devastanti, bastian contrari, amanti del feltro, amanti della ghisa, amanti dell'acqua sporca. Siamo usciti da Hamburger Banhof con la voglia di dare fuoco a tutto quello performato dopo il 1980. Siamo usciti da Hamburger Banhof e siamo andati a chiudere un cerchio aperto più di un lustro fa, quando c'erano in ballo vite diverse e tutte orbitavano attorno a Padova. Stefano è venuto a lavorare qui e qui c'eravamo già incontrati, ma era stato tutto troppo veloce per considerarlo un vero e proprio incontro. Stavolta abbiamo pianificato un posto, un concerto, delle birrette leggermente amare che scorrono troppo bene per non chiamarne altre e altre ancora.

Qui ci siamo lasciati per vedere l'effetto che fa, per tornare a casa una domenica sera qualsiasi ed essere come un berlinese qualsiasi, che guarda un concerto con un vecchio amico, si sbronza con un vecchio amico, sorride perché il vecchio amico comincia a dimenticare l'italiano e se ci pensi è divertente, visto che il tuo lavoro a differenza del mio innanzitutto è un lavoro e in secondo luogo è stato appiccicato sulle pareti della stazione centrale di Milano, tra le altre.

Il rumore dei vagoni che sferragliano sui binari è un qualcosa che mi manca, ovattato dal chiuso di una galleria a qualche metro sotto il livello dell'asfalto, qualcosa che riscopro ogni volta, che mi fa sorridere, tracciando linee drittissime da una parte all'altra di un paesotto di svariati milioni di abitanti.

Anche con l'unico receptionist fastidioso della nostra vacanza, anche con i piedi spezzati dai troppi, troppi chilometri percorsi. Quando ci siamo guardati persi in qualche imprecisato piano di Friedrichstrasse, con i treni che ci sfrecciavano attorno e nessuno di essi portava un nome che ci potesse in qualche modo tornare utile.

Era quello che aspettavamo, uno spazio nostro di cui avevo bisogno. E anche se dicevi di no avevamo già i pezzi di Lego che ci servivano, dovevamo soltanto costruirlo. Avere la pazienza e la voglia di aprire la scatola che li conteneva e leggere le istruzioni. Poi le abbiamo buttate via, lasciate in camera come la guida, le istruzioni; ed è stato bello così. Bello come tornare a casa da sola, sorridere assieme a due sorelline che in metropolitana non riuscivano a completare una filastrocca con quel giochino delle mani perché una delle due non riusciva a smettere un secondo di ridere. Una filastrocca di cui ho capito soltanto pepsi cola e coca cola; meglio di così mi era difficile. Ma ridere è sempre cosa più semplice.

Quando abbiamo aperto gli occhi lunedì è stato così strano. La mano appoggiata nel letto. L'ennesima doccia, l'ennesima colazione mostruosa. Tutto comincia ad assomigliare ad una normalità che il giorno dopo finisce. Come i tour di tre o quattro giorni. Ti devastano più di quelli di un mese.

Possiamo tornare a casa e guardarci negli occhi e dirci che siamo qui e che qui, alla fine, abbiamo sentito chiaramente quella sensazione di completezza che abbiamo a lungo atteso.



lunedì 26 settembre 2011

Il destino che ci siamo scelti.

Questo progetto di tesi nasce da qualche anno di troppo lasciato per strada, da come sono cambiate le cose, da come la faccia si è asciugata nel tempo. Dalle bottiglie di vodka lungo via Gattamelata, ed eravamo oggettivamente dei bambini, a quando mi hai trovato davanti a psicologia mentre contavo fino a mille per non tornare dentro ad uccidere qualcuno. Questo progetto di tesi supera ogni senso di spazio di tempo, che sembra ieri e tra ieri e oggi è successo di tutto, siamo andati ovunque e siamo tornati sempre qui, il primo giorno come il giorno prima di laurearsi.
Claudia, Niccolò, Lavinia, Stefano, ci siamo conosciuti qui. Alberta, Jack, Federica, Seba, ci siamo ritrovati in molti posti. Ci siamo persi perché ognuno ha deciso cos'era meglio per se stesso, che ci hanno un po' preso in giro promettendoci cose che non sono stati in grado di mantenere, un lavoro e una stabilità che a ripensarci avrei provato a medicina. Per abbandonarla perché siamo fatti di una sostanza indecifrabile, ma che di sicuro non sono sogni, non sono anni infiniti, e soprattutto non è sangue.
Parlavano del contratto implicito al prosieguo degli studi, ma nessuno mi aveva spiegato cosa si prova a stare sopra un palco per davvero. Mentre abbiamo fatto l'abitudine a sentire ministri e sottosegretari che parlano di noi come degli sfigati, un'interfacoltà di merda per gente che non ha voglia di fare niente. E invece noi ci credevamo davvero, almeno fino ad un paio di anni fa. Per cui perdonatemi se ondeggiavo con la sedia durante la discussione, perdonatemi se non sembravo agitato in alcun modo e se giovedì sera stavo a bermi una birra con gli amici.
C'era chi era emozionato anche per me.
E c'è chi si è preoccupato di farmi ricordare per sempre questo venerdì, questi anni che son passati, questo progetto di tesi, questi esami, quel prof che se ne è andato per sempre una settimana fa, quella prof che invece è ancora tra noi nonostante le nostre maledizioni, quelle mattine eterne, quelle mattine buie, quei pochi mercoledì da leoni che però a chiudere gli occhi sono sempre qui.
Mancano ancora dei passaggi, manca la coscienza di aver terminato un qualcosa che ti accompagnava da sempre, da quando non avevi memoria. Resta il tempo che ci serve per comprendere quale sarà la prossima mossa, anche se il destino che ci siamo scelti, ce lo siamo scelti da un pezzo.

venerdì 2 settembre 2011

Qualcosa di definito.

Sai, oggi la linea tra il mare e il cielo è meno definita del solito, sono svariati azzurri che si mischiano e si sovrappongono. Come le tonalità di grigio e di nero tra le nebbie estive, in quella strada sempre uguale che si perde nella campagna e arriva fino alla salaprove, nell'estrema periferia del nostro mondo. Dove c'è un dialetto diverso, dove ci sono io e la musica che decido di ascoltare per arrivare sconvolto a dilaniarmi le orecchie tra due amplificatori accesi e una manciata di ascoltatori dalle molte zampe.
Gigi ha paura dei rospi, a me fanno schifo i ragni, e non c'è modo di farseli piacere.
Un po' come quando vorresti smettere di amare o di odiare qualcosa anche se sai bene che è una guerra persa in partenza, e anche vincere una battaglia sarà un'impresa.
Però le frasi potrebbero essere più corte, più definite. E invece i giorni si allineano come i chilometri percorsi, tutti uguali, sacrificati ad un qualcosa di più profondo che è così profondo che non si riesce a distinguere. Come le frasi ad effetto che adesso devo chiedertele in prestito. Come in quei film che si passa da un giorno ad un altro di qualche anno dopo, facendo finta che in mezzo non ci sia stato nulla. Ed invece è proprio in quel nulla, che costantemente mi perdo. Così poco definito, da non sapere se è meglio volarci sopra a quella linea, o nuotarci sotto. Ma forse questi contorni sfocati sono proprio quelli che per adesso ci salvano la vita, mentre decidiamo un posto dove sparire per qualche giorno quando sarà il momento, anche se non lo abbiamo ancora trovato.
Oggi è un giorno strano, dove la pelle è più sottile, dove ho cominciato a fumare prima del solito e ho già finito mezzo pacchetto.
Oggi è un giorno sfocato, dove mi piacerebbe attaccarmi con le unghie a qualcosa che c'è.
Un tavolo è un mobile con una superficie piana, di solito con quattro gambe, di solito in legno, se parliamo di tavoli seri. C'è stato un tempo in cui non stavo mai fermo ed ero alto esattamente quanto il tavolo della cucina, e prendevo tutti gli spigoli, continuamente. Non c'erano onde lunghe, non c'erano ombre lunghe, c'ero solo io che correvo inseguito da nessuno e curvavo sempre troppo o troppo poco e ogni volta mi schiantavo.
Ecco, quando penso a un qualcosa di definito, oggi è un qualcosa del genere.

giovedì 1 settembre 2011

Frammenti di un agosto mai arrivato.

Un giorno penseremo a queste giornate tutte uguali, e ci rideremo su. Magari con una birra in mano e con i piedi immersi nella sabbia calda di un altro agosto, perché questo che è già passato, in realtà sembra non essere arrivato mai.
Non siamo mai stati così pallidi, poche altre volte ci siamo sentiti così ripagati nel dividere le nostre giornate tra un computer e un miliardo di appunti scritti peggio del solito.

venerdì 29 luglio 2011

La seconda tragica Rovigo

Ricapitoliamo, così da non perdere niente. Che i giorni passano.
Siamo in quest'estate di inizio autunno, e non dormo la notte. Perché quando siamo lontani sgomitiamo per avvicinarci, per poi allontanarci ancora tra aerei, treni e biciclette rubate.
Non dormo la notte per una tesi che corre tra decine e decine e decine di fogli sparsi e di appunti indecifrabili, occhi che si incrociano, croci su questionari duepuntozero e incazzature vecchio stile. Vivo Bologna con il contagocce perdendo il conto dei drink che mi passano per le mani, e ad ogni viaggio la scrivania della cripta trabocca di pile scoordinate di cose da fare. La scrivania, mentre ci derubavano in cambio di due fette di melone in riva ad un parcheggio, la immaginavamo piena di qualcos'altro.
Questa mattina devo andare a Bologna, questa mattina mi è arrivata una multa. Presa a Bologna quando sbagliavamo strada e prendevamo tutte le ztl del mondo. E' successo solo una volta, in realtà, ma le telecamere non dormono mai soprattutto quando passiamo noi, e con precisione quasi chirurgica ci presentano il conto. Dopo averti fatto sperare per sessanta giorni, dopo che avevi cominciato a provare a rimangiarti le bestemmie che avevano riempito la macchina quel lunedì sera. Non lasciare e raddoppia.
Questa notte il vento mi ha aiutato a intravedere l'alba con le cuffiette nelle orecchie e le mani incastonate nel mac e nei grafici con imprecisati break even point.
Questa mattina il regionale sbagliato da Chioggia a Rovigo si è incastonato alla stazione di Loreo. Mezzora fermi a guardare il nulla fuori del finestrino. Sono arrivato a Rovigo giusto in tempo per vedere il regionale veloce ma altrettanto sbagliato partire verso Bologna.
Questa mattina, ho odiato tutte le mattine del mondo.
Vado a prendere una rivista a caso all'edicola chiusa per ferie della stazione.
Mi chiudo in bagno ad imprecare, ci resto cinque minuti buoni.
Vado a farmi un giro fuori, nel nulla del nulla di quella Rovigo da film che non vorresti mai vedere. La polizia locale sta riempiendo di multe tutte le macchine parcheggiate dalla stazione in giù.
Mi butto nel primo parchetto che trovo, che non ha nulla di un parchetto. La bocciofila e la sala biliardo, dove un giorno abbiamo deciso di farci insegnare come si gioca. Sia mai che Catellani voglia fare una partita, uno di questi giorni.
Dicevo mi butto nel primo parchetto che trovo, lontano dalla polizia locale e dalle rumene che bevono birra in bottigliette di plastica. E ci fumo pesantemente sopra. E mi ritrovo a vagare ancora in una città deserta, sempre nei soliti posti, è sparito il monumento nella piazza ma in compenso stanno ristrutturando tutto e quindi tutto è un cantiere.
Nascondo gli occhi arrossati con gli occhiali da sole, aspetto che l'ennesima attesa si assottigli.
Più che una città, Rovigo mi sembra una personalissima condanna.

Il cielo è azzurro tutto intorno, tranne a Bologna. Sopra Bologna c'è una nuvola scura, grigia, gonfia. Mi incammino con la borsa che mi sega la base del collo, come ogni volta. Prendo strade parallele e scorciatoie nascoste, la velocità di crociera sotto i portici di via Indipendenza è prossima alla retromarcia.
C'è questa scena raccontata da Mimì in un suo libro, lui e Leo che pedinano una bella ragazza. Leo spiega quanti particolari si possono capire, semplicemente osservando. Leo capisce che è bolognese perché evita le arterie principali, e si concentra sulle vie capillari, per fuggire dalla ressa, perché sa dove andare. Questa cosa di sapere dove andare. Di evitare gli ingorghi, è una cosa che mi è sempre piaciuta. Cronometrare le varie eventualità. Scegliere la migliore della settimana. Riproporla, migliorarla, senza accelerare il passo.
Per le calli di Venezia, sarebbe impossibile.
Entro in strada maggiore e al caldo si aggiunge la pioggia, arrivo in cripta che sono moderatamente bagnato.
Ricapitoliamo, così da non perdere niente.

giovedì 30 giugno 2011

Capire troppo.

Ti riempirò di fiori, con la terra e i vasi, così da essere sicuro di non mancarti.
Ci riempiremo di domande su cosa vogliamo fare di questa estate, che prima non arrivava mai e adesso un po' ci sfugge, che a Padova sono quaranta gradi e ci stiamo sciogliendo per niente, che a Bologna non si può stare in casa, che poi tecnicamente la casa non è neanche mia. A Milano dici l'asfalto scotta anche attraverso i sandali, qui ti rispondo il cervello ha preso fuoco anche con l'aria condizionata accesa. E attorno a tutto questo restano delle mail a cui rispondere e le newsletter che non abbiamo mai voluto ricevere, e cose da sistemare e caffé da prendere senza curarsi troppo di darsi delle priorità.
C'è Marco che ha venti mesi e non capisce troppo ma senza dire niente colonizza la spiaggia, e ci giochiamo insieme costruendo castelli di sabbia che durano qualche secondo. Il tempo per permettergli di schiacciarli con le mani, e la bocca incrostata di sabbia. E non capisce troppo perché non ti sente nemmeno quando lo chiami, a meno che non gli convenga, come i gatti. E ride e infila la testa nella sabbia, come gli struzzi, forse proprio perché non capisce troppo. Mentre smetto di chiedermi perché sono andato a studiare in spiaggia, che forse non capisco troppo nemmeno io.
Strumentali nelle orecchie, pensieri che sfuggono, parole che non dici, ma che ti porti dentro. Pensieri troppo veloci per fermarli su un pezzo di carta, su un foglio excel, sul display di un cellulare troppo vecchio per funzionare ancora. E intanto Marco cammina tra gli ombrelloni, sbanda di tanto in tanto, scivola ma non piange. Tutti lo controlliamo da distante, senza intervenire. Sarà che secondo me non capisce troppo, ma sembra aver capito tutto.

sabato 25 giugno 2011

Ottavina a cinque sponde.

Il nuovo me non perde treni, semplicemente i treni proprio non passano. E allora impariamo a giocare a biliardo all'italiana in un bar del dopolavoro ferroviario di Rovigo, per ammazzare due ore altrimenti infinite. Un bar di cinesi dove un bianco costa 80 centesimi. Dove i vecchi che giocano a carte ti spiegano i punti e ti guardano come un coglione quando sbagli un tiro facile. Che non sai usare i diamanti per le sponde. Che l'ottavina a cinque sponde ho dovuto andare a guardare su google che cos'è, e adesso che lo so posso assicurarti che non mi verrà mai, neanche dopo trent'anni di partite. Che se colpisci di taglio poi caramboli con la rossa, colpo al boccino e il filotto è servito. Facile no? Svariati punti, che non so contare.
Il nuovo me cammina di notte, per tornare fulminato a casa mentre il sole comincia a sorgere dopo lune rosse e venerdì neri. Entra nei sogni altrui e nei libretti universitari. Nei crediti che mancano per laurearsi. Nelle mail che non mi mandi e che mi lasci qui ad aspettare un giudizio che arriva sempre troppo tardi.
Il nuovo me è una canzone che dura troppo poco e un po' dispiace, perchè ha un incedere un testo un suono di quelli che potrebbero durare anche dieci minuti. Mentre te ne vai da una parte all'altra ed io ti aspetto qui, mentre ho detto addio a certi portici e a certe strade per poi tornarci e dire era solo un arrivederci, sono il solito esagerato.
Il nuovo me è sempre quello. Fondamentalmente ha solo i capelli molto più corti.

mercoledì 1 giugno 2011

Forse di maggio, resterà solo questo.

Guarda che maggio è passato. E i tramonti non arrivano mai mentre scattiamo troppe volte su e giù per le stesse strade, da mattina a sera, ancora. Che poi ci passano davanti momenti da riempirsi gli occhi, i colori decisi delle case ai bordi della laguna, la tua inaspettata guida sportiva. Gli agguati dei carabinieri e i posti di blocco nei posti più improbabili che verrebbe da chieder loro perché hanno scelto di mettersi proprio lì, mentre continuiamo a parlare delle nostre cose con la radio troppo alta. Andiamo a controllare tutti i sensi di marcia invertiti, le rotonde e i leghisti che nei santini elettorali hanno la città nel cuore e il cuore a destra. E tutti gli arancioni che a seconda del luogo hanno significato una prevedibile sconfitta ed un'esaltante vittoria, solo per una questione di chilometri. E alla fine dovrai trovarti un lavoro, anche tu. Ma ho i miei dubbi.
Sai, non me ne sono reso conto che maggio è passato, ma ho visto i tuoi occhi, e ho sentito il tuo sorriso appoggiato alla mia spalla, uno scalino più in basso così siamo alti uguali. Forse di maggio, resterà solo questo.

giovedì 28 aprile 2011

Ci guardiamo dentro per cercarci un po'.

A volte sono solo sensazioni. Come quelle di raccontarci le nostre collassate più improbabili tra corriere di pendolari e piazze storiche, come svegliarsi una mattina con quell'agitazione tipica della stazione di Milano. Ci guardiamo dentro per cercarci un po'. Ci guardiamo lo stomaco pieno di nodi, se vuoi. Che ceneremo domani, che adesso no. Che adesso mi tengo questa agitazione tipica di quelle primavere che non sono così distanti, mentre questo cielo sembra ci voglia bombardare, che adesso mi tengo questo paio di bacchette un po' sbucciate e questo tappeto rosso che non si può guardare. Mi manchi perché avremmo potuto fare indigestione di noi, fossi rimasto qualche giorno in più. Mi manchi perché in certe occasioni sembra che non sia partito mai, anche viaggiando con due fusi orari diversi, anche quando mi ritrovo in sei contro uno, anche quando non ci sentiamo quando vibrano le pelli dei tamburi.
A volte sono solo sensazioni, a volte c'è solo uno sfrenato bisogno di partire verso qualche parte. Non importa dove.

mercoledì 13 aprile 2011

Per smentirvi.

Amore abbiamo preso la pioggia e davvero sono dieci gradi in meno di dieci minuti fa.
Amore quel treno è perso per sempre, non passerà mai più è perso per sempre ,come i testi delle canzoni di merda scritti sbagliati sulle saracinesche dei negozi chiusi. Cancellati come noi certi venerdì sera. Ma da dietro il vetro e le inferriate leggère c'erano quei colori gonfi di gialli, colori di legno di chitarre acustiche di violoncelli scordati di batterie prestate. Ci siamo dimenticati di fotografarli. Per smentirvi. Sembra un mondo a parte, un mondo dentro un altro mondo che siamo noi con i nostri mal di testa e con le nostre agende piene di cancellature e di asterischi e di impegni così ravvicinati da prendersi a pugni, e quando inventeranno il teltrasporto sarà sempre troppo tardi. Così non avremo i minuti contati per abbracciarci e per urlarci dietro e per rotolarci dormendo nel letto. Mi vedo riflesso sul vetro della finestra, scelgo con cura uno dei cinque mazzi di chiavi che compongono le mie giornate. Ha ragione Fiorenzo Stige dei Bachi da Pietra è l'ennesima dimostrazione di manifesta superiorità.
Sono giorni che penso a voi, esercito di santi geniali e maledetti. Riflesso nelle vetrine illuminate delle pasticcerie veneziane, nei bicchieri di vino che profumano di panettone o di pompelmo. Nei monologhi in macchina che ogni tanto, in coda nell'ora di punta in ogni zona industriale del veneto orientale, verrebbe quasi da asciugarsi gli occhi.

giovedì 31 marzo 2011

Che bell'inganno sei anima mia.

Alla fine il treno diventa quel luogo neanche troppo immaginario in cui smetto di pensare e comincio a scrivere. Su questo regionale in cui ci ho dormito, dove ho sproloquiato telefonate chilometriche verso tutti gli angoli d'Italia il più delle volte verso casa, dove ho preparato esami dagli esiti impensabili, dove ho immaginato infinite vite parallele, in ogni stazione, in ogni campagna.
E questa mattina è cominciata presto con De André nelle orecchie, con il professore che arriva con mezz'ora di ritardo e mi offre il caffé. Che ne ho bevuto uno dieci minuti prima ma va bene lo stesso. Dice che i lavori che ho preparato l'anno scorso adesso glieli somministra agli studenti di quest'anno, poveri loro, quelli che gli spedivamo ad orari improponibili e che poi erano orari in cui lui mi rispondeva immediatamente.
Gli ricordo che anch'io sono ancora uno studente ogni tanto, e lui mi risponde che ogni tanto è un professore ed è contento di sapere che non è l'unico a vivere in un colpo solo due o tre vite diverse. Anche se l'idea di tirare le somme a questa catastrofica carriera universitaria rende tutto più leggero, anche un progetto di tesi che l'aggettivo che ho sentito più volte quando l'ho spiegato è stato "utopico", insieme a "bellissimo". Allora alleggeriamo il tutto, e ci vediamo ogni tanto, e ci vediamo a Milano, al concerto. O a bere un altro caffé che il prossimo lo offro io. E poi ti telefono e ti racconto, così la strada tra l'università e la stazione sembra più corta, e poi mi arrivano messaggi su messaggi di gente che ha deciso di cercarmi proprio in quei tre minuti. Che lo abbiamo citato mille volte e in stazione mi viene a prendere Moltheni, tra un po'. E ovviamente adesso mi chiama per dirmi che è incastrato a casa e allora mi invita a pranzo. Con io che improvviso una conoscenza esagerata delle viuzze di Bologna, che chissà magari arriverò per cena. Mentre partono telefonate involontarie oltre l'oceano atlantico, e ti tratterò bene, e dorme la madre con il figlio in braccio e il figlio è enorme e avrà tre mesi al massimo. E continua questa cura di De Andrè e ogni tanto sbuca Fossati. Che bell'inganno sei anima mia, che bell'inganno per fortuna ci siamo ripresi appena in tempo e l'anima te la cedo volentieri, basta che ci vogliamo bene.
E ripenso ai commenti lunghissimi a cui non so rispondere, mi do tempo due settimane ma magari la prima volta che torno un po' ciucco le parole verranno. Che il concetto non è poi così complesso, e a pescare ci sono andato una volta. Anima mia, che bell'inganno sei.
E poi guardaci siamo qui a sopravvivere tra gli scioperi, sono passati due giorni e molte cose sono state sistemate, contro ogni previsione. Con questo sole e questi tramonti lontani, camminiamo in questa primavera ritrovata, anche se la borsa pesa un sacco ma non mi lamento e mi piacciono i tuoi commenti. E sei mesi sono passati, tanto per tornarci, tanto per tornare a quel nucleo di dolore che si attacca al cuore. Non fatemi pensare, e tra un anno spero di esserci, che non ho problemi a dirti che mi hai convinto. Sarà l'esperienza, sarà l'inesperienza, sarà che chissà quali saranno i miei prossimi scarponcini.
Che bell'inganno sei anima mia.

giovedì 17 marzo 2011

Della pioggia e degli anni che passano.

Poi ripenso a Trieste e alle sue vie in discesa piene di lavori in corso. Alla cassa della batteria che la vedo rotolare allegramente e che la vado a riprendere una trentina di metri più sotto. Alla cassa della batteria e al mio fegato e a mia madre quando le parlo del tempo. Della pioggia e degli anni che passano. A chiedersi se sono nati prima certi bar o le persone che ci bevono dentro da trent'anni. Mentre mi racconti di una mano a poker di venticinque anni fa, quattro re contro una scala reale e la possibilità di tornare a casa con una casa in più. E io ti racconto di quando venticinque anni fa non possedevo neanche quel briciolo, diciamo, di materialità per poter piangere mangiare riempire i pannolini dormire. Produci consuma crepa.
Cambia registro, scrivi in cinque minuti quaranta cartelle dopo che per quaranta giorni hai scritto cinque righe e ne hai cancellate tre e una ci hai pensato un po' e poi l'hai lasciata per non sentirti troppo inutile. A dirsi che scriviamo al computer perché ci siamo disabituati a usare la penna e dopo due minuti cominciano a venirci i crampi alla mano. E generalmente abbiamo una grafia troppo indecente che a volte non capiamo neanche noi cos'abbiamo scritto. Che poi sul più bello finiscono i fogli e allora cominciamo a scrivere ovunque anche negli angoli delle strade e una volta ho finito una frase dipingendomi le braccia.
Mi dici ti vedo un po' svampito forse ultimamente ti stai facendo un po' troppo e io ti rispondo ma che cazzo dici e intanto mi dimentico dove abiti, e intanto abbatto le biciclette parcheggiate,e intanto è una cosa che penso anch'io.
Bisogna essere liberi e democratici e i discorsi di Pertini che valgono più di una bandiera attaccata al rovescio per festeggiare un compleanno che non sentiamo nostro. Come festeggiare i quarantanni anche se vorresti spegnere quindici candeline in meno. Bisogna capirci quando i tuoi respiri sono troppo cadenzati e quando ti sfioro ma non riesco a toccarti mai. Quando ti saluto ma non mi stai guardando.
Come quando mi telefoni per chiedermi com'è andata la serata perché dalle nove della sera alle nove del mattino dici hai un piccolo vuoto di memoria.
E tutti i miei tu che sembrano un telefono occupato.
Perchè siamo così bravi ad eludere i buttafuori e a deludere i gestori, che quindici euro sono troppi per un tributo e per scansare le sigarette che mi tiri dietro. Che ci siamo conosciuti così e lei non ci crede e invece ti ricordi ero uno sbarbo pieno di sogni di gloria. Mentre adesso mi si dice che sono cattivello e che quindi il mio giudizio non è da sottovalutare.
Poi ripenso ai miei cachet ridicoli quando suonavamo per venti euro, quando vigevano i prezzi imposti dei biglietti, quando a Vigevano ci ricordavamo di qualcuno che non vediamo più da ventanni ma che forse abita ancora qui. Quando siamo troppo uguali a quegli ideali sconfitti che sembrano certi libri di Wu Ming.
Quando ho sognato che eravamo io e Fiorenzo sul palco dell'Estragon e si era inceppata la macchina del fumo e sembrava di stare in un pomeriggio autunnale nella campagna dietro la salaprove. E finiva il pezzo e c'erano quattro vecchi seduti su quattro sedie in mezzo alla sala deserta. Che ci applaudivano e ci chiedevano il bis. Pensa che non ho avuto il coraggio di raccontarlo a nessuno e poi l'ho scritto qui.
Qui che tra un paio di minuti saremo a Rovigo e un po' mi prende male.
E ho finito i fogli.

sabato 5 marzo 2011

Annarella.

Sarà che quello che abbiamo cucinato questa notte alle quattro, più che uno spuntino sembrava una cena mancata, sarà che adesso il cielo è bianco sopra i tetti delle case e un cielo bianco non promette mai cose troppo positive, saranno i mozziconi di sigaretta abbandonati nel posacenere in salotto. Saranno le nostre conversazioni infinite sugli stati d'animo e sugli stati d'angoscia. Sarà il caffè che scalda le vene e le mischia alle parole che non riusciamo a dirci, alle parole e ai concetti che abbiamo in testa e che non ne vogliono sapere di uscire seguendo un qualsiasi filo logico. Saranno i Calexico e le discussioni serie se è nato prima l'uovo o la gallina, e se noi nello specifico ci sentiamo più materiale da frittata o volatili domestici. O semplicemente se visto come vanno oggi le cose nel mondo, già solo spaccarsi la testa possa essere una soluzione accettabile, che di quello che ne viene fuori ce ne occuperemo con calma, poi.
Saranno le vostre guide sportive o la Vodafone che mi chiede di tornare offrendomi irripetibili affari che mai in dieci anni mi hanno offerto, o ancora meglio quelle ore passate a litigare fino a che i semafori torneranno verdi e potremo ripartire. A perderci ancora nelle campagne addormentate per quelle stradine tormentate che forse non hanno nemmeno un nome. Che dovremmo darglielo noi. Nelle vie di una cittadina spazzata dal vento e dal mare, a calcolare quanto potrebbe essere vasto un isolato e quanti isolati ci potrebbero essere da un punto x a un punto y, che poi siamo noi. Nel mio cuore ci sono parecchi isolati e un'autostrada, con tu che la percorri come sempre guardandoti un po' in giro che sembra che seguire la carreggiata sia l'ultimo dei tuoi pensieri, con io che senza che te ne accorga mi puntello sul sedile, che non si sa mai. Anche se mi fido, che il tempo ci ha stretto e niente è stato perso, mai, e tutto quello che abbiamo raccolto con gli occhi lo abbiamo messo dentro scatole ben confezionate, decorate con le pagine strappate di un vecchio libro e immerse nel tè, per farlo sembrare ancora più vecchio.
Dimmi, non è così? Con Annarella che nei tuoi sogni smette di essere solo una canzone e diventa una specie di consacrazione, un passaggio di consegne. Sarà che è così semplice da suonare. E dimmi, soprattutto, se è colpa degli anni che ci scivolano addosso o è colpa nostra che non ci prestiamo troppa attenzione. La rivoluzione, amore, la rivoluzione, la presa della bastiglia, noi siamo la rivoluzione, senza comunicati stampa, senza dire che bisogna vederci meglio e vederci prima degli altri. Semplicemente dobbiamo scendere in piazza, ad abbracciarci tra il rumore degli spari, sotto questo cielo bianco che promette quello che deve promettere. Al massimo qui è pieno di portici, per prendere fiato.